PROBLEMI DELL’UNITA’ SINDACALE – Carniti, Caviglioli, Colombo, Merli Brandini – 12/4/11

Pierre Carniti, Rino Caviglioli, Mario Colombo e Pietro Merli Brandini hanno definito il loro scritto “Appunto sui problemi dell’unità sindacale”. Sono solo due cartelle e mezza ma indicano una possibile strada per uscire dalle sabbie mobili in cui sta sprofondando il sindacato in molte realtà del nostro paese. Uno dei punti di massima difficoltà è certamente la Fiat dove l’unilateralismo di Sergio Marchionne è probabilmente conseguente alla divisione tra la mezza dozzina di sindacati presenti in Fiat ed in particolare del venire meno dell’unità negoziale tra i tre principali sindacati nazionali, che dal dopoguerra ad oggi hanno determinato nei fatti l’erga omnes, ovvero l’applicabilità dei contratti a tutti i lavoratori, iscritti o meno, di un’azienda o di una categoria. I quattro firmatari sono stati prestigiosi dirigenti sindacali della Fim-Cisl e della Cisl negli anni 60 e 70. Hanno ricoperto incarichi a più livelli. Di certo oggi hanno idee diverse sulla politica e sul sindacato, anche profonde. Però hanno scritto “un appunto” che potrebbe essere di gran aiuto a quanti nel sindacato vogliono battersi per far ritornare una necessaria unità d’azione nelle aziende, nel territorio ed anche a livello confederale.

Appunto sui problemi dell’unità sindacale.

Il pluralismo sindacale pone il problema ineludibile dell’unità: nelle decisioni, nelle azioni, nella valutazione dei risultati conseguiti.

Poiché è noto che nella dialettica politica e sociale non basta avere ragione, me è necessaria anche la forza per farla valere, la convergenza unitaria costituisce un requisito occorrente per un movimento sindacale che intenda correggere una situazione sociale caratterizzata da profonde iniquità: tra chi lavora e chi non lavora; tra chi produce guadagnando poco e chi guadagna senza produrre niente; tra chi paga le tasse per tutti e chi le evade a proprio vantaggio. In assenza di una iniziativa convergente queste ingiustizie sono inevitabilmente destinate a dilatarsi.

Per motivare gli episodi di divisione che si sono accumulati negli ultimi tempi si è spesso ricorsi ad una duplice spiegazione. Primo. Le diversità culturali tra le diverse organizzazioni (che spiegherebbero anche le differenze tra condotte legate al principio della democrazia rappresentava e comportamenti ispirati invece ad una concezione più “movimentista”). Secondo. Il dissenso (ma sarebbe più corretto dire la confusione) in ordine ai criteri ed alle modalità di formazione della rappresentanza ai fini delle decisioni.

Circa il primo punto. In un quadro di perdurante pluralismo culturale, politico ed organizzativo è evidente che le diverse forze sindacali non si confondono e non si disperdono nell’atto di collaborare. Tuttavia esse non possono non essere consapevoli che è utile lavorare insieme. Naturalmente la condizione perché ciò possa avvenire è che la diversità non si trasformi in pregiudiziale contrapposizione. Il che significa rifiuto del dogmatismo ed al contrario predisposizione al movimento, alla curiosità, alla capacità di persuadere e di essere persuasi, alla subordinazione ad un comune servizio. Che è il riconoscimento del valore, della dignità del lavoro, e dunque del miglioramento della condizione sociale ed economica dei lavoratori.

Per quanto riguarda il secondo aspetto le cose, in astratto, dovrebbero essere più semplici. Perché in fin dei conti si tratta di regole e procedure. In realtà esse sono diventate il terreno di un’aspra contestazione reciproca tra le organizzazioni. Per capire questa contraddizione ci può essere di aiuto la conversazione tra Alice ed il gatto Cheshire. Rivolgendosi al gatto Alice dice: “per favore vorresti dirmi quale strada devo percorrere da qui?” “Questo dipende da dove vuoi andare” le risponde giustamente il gatto.

Dunque le regole possono essere definite abbastanza semplicemente quando è chiaro a cosa devono servire e per andare dove. Sul piano generale la cosa chiara è che il movimento sindacale non sarà realisticamente in grado di influire sulla redistribuzione del reddito e del lavoro in assenza di un impegno comune. Ma per non complicare inutilmente le cose qui ci limitiamo a prendere in considerazione il compito canonico del sindacato, che è quello di fare contratti. Anche perché è proprio intorno alla legittimità della stipula di alcuni contratti nazionali ed accordi aziendali che negli ultimi tempi sono sorte le più dure dispute in ordine alla formazione della rappresentanza.

Quando si parla di rappresentanza (vale a dire chi rappresenta chi) è ovvio che ci si muove nell’ambito della logica della democrazia rappresentativa. Essenziale dunque stabilire chi si rappresenta. Tuttavia, altrettanto indispensabile sapere per fare cosa. Sapere insomma dove si vuole andare, per dirla con il gatto di Alice. Naturalmente sarebbe necessaria qualche idea anche circa le difficoltà che il tragitto presenta. Nel nostro caso sarebbe indispensabile tenere presente che negli ultimi decenni sono intervenuti cambiamenti radicali che hanno stravolto l’economia e la finanza. Questi cambiamenti hanno avuto pesanti riflessi sul lavoro e conseguentemente sulla efficacia e le modalità della sua tutela. Ci riferiamo, in particolare, a quel fenomeno sconvolgente che è stato definito “globalizzazione”. Che non è riducibile soltanto alla dimensione del commercio internazionale, ma indica una rottura radicale rispetto al passato. Perché ha introdotto una asimmetria decisiva tra capitale e lavoro. Il capitale infatti è diventato globale ed il lavoro è invece locale. Il capitale è nomade, il lavoro è invece necessariamente sedentario.

Purtroppo di questo elemento, con cui si è chiamati a fare i conti, nella disputa tra le organizzazioni sindacali non c’è traccia. In particolare non c’è traccia di una vera discussione in ordine agli adattamenti richiesti alla struttura della contrattazione. Ci si limita infatti a ripetere come un “mantra” che va difesa l’articolazione su due livelli (nazionale, aziendale e/o territoriale) che hanno storicamente caratterizzato la struttura contrattuale italiana.

Ma, tenuto conto del nuovo contesto, appare evidente che il nuovo contratto nazionale dovrebbe diventare più light. Perché dovrebbe cedere capacità regolativa ai livelli negoziali sovranazionali e nello stesso tempo attribuire maggiori funzioni ed una maggiore incisività all’attività contrattuale decentrata. Non fosse altro che per stabilire un legame più stringente tra la dinamica della produttività e quella retributiva. Nello stesso tempo andrebbero però anche tenuti presenti e risolti un paio di problemi. Che, se ignorati, rischiano di mettere in causa la sopravvivenza del contratto nazionale. Ci riferiamo, innanzi tutto al fatto, che la fiscalità di vantaggio stabilita per la contrattazione aziendale può ridurre, fino ad annullare, l’interesse per la contrattazione nazionale. Il secondo aspetto che può portare al definitivo affondamento del contratto nazionale è che (come ha dimostrato la vicenda Fiat) è sufficiente che le imprese fuoriescano dalle organizzazioni di rappresentanza imprenditoriali (generali e di categoria) per considerarsi non più vincolate al rispetto del contratto nazionale e contemporaneamente abilitate all’adozione di normative deregolative.

Se, come viene ribadito, si intende davvero mantenere i due livelli contrattuali si pone dunque il problema della efficacia erga omnes dei contratti nazionali di lavoro. Che è allo stesso tempo un problema di strumenti di intervento, ma anche di rappresentatività dei contraenti. Ma come si fa a stabilire quando un contratto deve essere ritenuto valido per tutti? Nell’ambito di consolidate procedure di democrazia rappresentativa, un contratto si dovrebbe ritenere valido quando la sottoscrizione è (ad esempio) approvata da una maggioranza qualificata (che potrebbe essere di due terzi) dei componenti degli organismi rappresentativi (Consigli generali e Comitati centrali) dei sindacati di categoria più rappresentativi. In difetto, poiché il contratto si applica a tutti (iscritti e non iscritti ai sindacati), si dovrebbe procedere ad un referendum tra tutti i lavoratori.

Per quanto riguarda il livello aziendale, la prima cosa da dire è che non può essere condiviso il criterio assunto da alcuni recenti accordi. Che, come è noto, hanno comportato l’eliminazione delle rappresentanze elettive e l’esclusione dei sindacati non firmatari. L’adozione surrettizia, come in questi casi, del modello di Union shop non è infatti accettabile. Per tante ragioni. Ma quella essenziale è che esso risulta in contrasto con la difesa di un sistema che si vuole fondato sul pluralismo culturale ed organizzativo. Come tutti sappiamo bene, nella vita si possono fare tante cose. Alcune anche contraddittorie tra di loro. Ma ci sono cose assolutamente impossibili. Come ad esempio:  succhiare e fischiare contemporaneamente.

Ebbene, se il pluralismo è da considerare un punto fermo, almeno in questa fase storica, ne deriva che i lavoratori devono poter eleggere le RSU (scegliendo tra liste di candidati presentati dalle diverse organizzazioni). Ne deriva anche il conseguente diritto di tutti i sindacati che abbiano i requisiti di rappresentatività di partecipare alla contrattazione. Nello stabilire i requisiti di rappresentatività si può naturalmente introdurre uno sbarramento. Per evitare una frantumazione della rappresentanza che potrebbe rivelarsi un serio ostacolo alla assunzione delle decisioni.

In ogni caso, per l’adozione delle decisioni anche in questo caso si dovrebbe adottare un criterio analogo a quello previsto per il livello nazionale. Il che vuol dire che, una decisione, un accordo è valido quando è approvato almeno dai due terzi dei componenti le rappresentanze sindacali unitarie dell’azienda. Diversamente lo decisione viene presa a maggioranza semplice con un referendum tra tutti i lavoratori dell’azienda. In questo modo è possibile assumere le necessarie determinazioni. Anche in presenza di divisioni tra i sindacati e nel contempo fornire certezze tanto ai lavoratori che alle imprese.

Ovviamente, nulla e nessuno esclude che possano essere immaginate ed adottate delle varianti. Quello che conta non è infatti la formula finale a cui si perverrà. Ciò che conta è che le organizzazioni dei lavoratori decidano finalmente di abbandonare ogni sterile disputa e contrapposizione astratta sulla formazione della rappresentanza, per mettere finalmente a punto una regola concordata autonomamente. Sapendo che in assenza di una regolazione autonoma finirebbe per farsi strada la tentazione di una regolazione eteronoma. Intervento che potrebbe mettere a rischio la libertà e l’indipendenza del sindacato. Con conseguenze non propriamente positive sulla stessa democrazia pluralista.

Perché per funzionare davvero la democrazia politica pluralista esige infatti, non solo una pluralità di presenze “nelle” istituzioni, ma una pluralità “di” istituzioni, di ordinamenti, di poteri autonomi. Dunque una ragione in più per prendere coscienza, tanto più in una fase della vita politica pericolosamente caratterizzata da tentazioni lideristiche e populiste, che la difesa della capacità regolativa autonoma del sindacato costituisce un imprescindibile contributo, non solo alla tutela degli interessi dei lavoratori, ma anche alla democrazia dell’intero paese.

 

Pierre Carniti, Rino Caviglioli, Mario Colombo, Pietro Merli Brandini.

 

Aprile 2011
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