LIBIA: PACIFISMO ED USO FORZA ONU – A.Serafino- globalmondo

Il drammatico disastro del Giappone e la guerra civile in Libia hanno calamitato l’attenzione lasciando in ombra la grande lentezza della solidarietà internazionale, nel senso più ampio del termine, a far fronte ad eventi tanto intrecciati con l’interesse che si deve avere del mondo. Così Fukushima ha prodotto quanto è drammaticamente sotto i nostri occhi e la nostra valutazione, in Libia la ferocia del colonnello Gheddafi era a poche ore da completare la repressione, con un grande bagno di sangue di civili in rivolta, entrando in Bengasi.

In prima serata, il 17 marzo, Gheddafi ha pronunciato in televisione quell’agghiacciante discorso che probabilmente gli risulterà fatale, affermando che la caduta di Bengasi era questione di ore, che gli insorti dovevano arrendersi, che sarebbero stati cercati « strada per strada, casa per casa» aggiungendo « per chi non si arrende non avremo pietà”. Gli insorti si sono ammassati nella piazza centrale di Bengasi urlando contro di lui e sventolando le loro bandiere. Per soggiogarli, a questo punto, ci sarebbe stato un autentico massacro, un bagno dio sangue portato avanti da truppe mercenarie che già nei giorni precedenti avevano offerto un campionario del loro cinismo e della loro crudeltà in combattimento.

Senza questo evento probabilmente il tran-tran della diplomazia europea ed internazionale avrebbe pronunciato dure parole di condanna a massacro avvenuto, come in tanti altri episodi di questi ultimi decenni. Più attenta agli interessi commerciali che ai diritti umani. Business is business. All’ovest come all’est.

 

Dopo quella sfida di Gheddafi al suo popolo in lotta ed all’ONU ( esisteva già una risoluzione approvata all’inizio di Marzo che metteva al bando il regime del colonnello e della sua famiglia) c’è stata finalmente un’accelerazione della diplomazia internazionale, per motivi umanitari e non, che ha portato nella stessa notte di giovedì 17 marzo alla risoluzione dell’Onu n.1973. L’autorizzazione dell’uso della forza in Libia non si limita all’obiettivo della realizzazione della no fly zone , ma  “autorizza gli stati membri… a prendere tutte le misure necessarie… a proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacco nella Jamahiriya Araba di Libia, compresa Bengasi, escludendo l’ingresso di una forza di occupazione straniera in qualsiasi forma e in qualsiasi parte del territorio libico”.

 

Le truppe di Gheddafi avevano debellato gli insorti ad Ajdabiya ed avevano via libera per Bengasi per attuare quanto annunciato in Tv dal raiss.

Si sperava che la deliberazione del Consiglio di Sicurezza ( senza No ma con significative astensioni) potesse bastare per arrestare l’aggressione su Bengasi. Ma così non è stato.

 

Quando la voce passa alle armi, alle bombe, ai missili, ai tank, la prima vittima è la verità sui fatti, su quanto accade realmente sul territorio di guerra. La legalità internazionale definisce l’intervento militare dell’ONU un atto per ripristinare la pace, la convivenza ma gli effetti che si producono sono analoghi alle guerre, più o meno feroci, ma di atti d guerra in concreto si tratta. Le parole hanno il loro significato, certo, ma i fatti sono altrettanto inequivocabili e duri.

 

Quando parlano le armi, comprese quelle targate ONU, significa che la politica è venuta meno prima al suo compito, ha fallito nei suoi fini ed obiettivi oppure questi erano confusi ed affaristici, a volta addirittura menzogneri.

 

La politica non è riuscita a prevenire l’uso della forza sotto egida Onu. In particolare, la politica estera italiana, stile Berlusconi, ci ha relegato in un “ruolo senza ruolo” imbarazzante prima e dopo, ai confini della tacita connivenza e del voltagabbana. Significative al riguardo le ferme parole del Vescovo di Tripoli, Martinelli che dissente anche dai bombardamenti notturni sulla città. Desolante l’altalena governativa italiana anche in prospettiva di nuovi trattati economici e commerciali. L’Italia ha salvato il parte la sua immagine grazie alle ferme e chiare parole del Presidente Giorgio Napolitano. A livello internazionale un tardivo sussulto – seppure mosso da interessi diversi e contrastanti – ha impedito che fossero stroncate migliaia di vite, di molti giovani che inaspettatamente – anche in Libia – si sono mobilitati per rivendicare “pane e libertà” come in gran parte del Maghreb.

 

La sinistra italiana ed il fronte del pacifismo si è spaccato sulla risoluzione ONU: chi già per la deliberazione, chi per le modalità di attuazione, chi per una questione di principio. Eppure anni addietro, quando imperava la dottrina interventista ed unilaterale di George W.Bush ( 2001-09) con Tony Blair a ruota, la parola d’ordine per le mobilitazioni di piazza per “no war americana” per «l’utilizzo della forza i sotto l’egida Onu a difesa dei diritti umani».

 

Il dilemma era nei giorni scorsi ben chiaro: stare con le «mani in mano, ripetendo sacrosanti principi» mentre Gheddafi si accingeva ad entrare in Bengasi per chiudere il cerchio come annunciato in TV, come le sue truppe avevano iniziato a fare già nella periferia di Bengasi? Era più che evidente che per fermare quelle truppe, quel messaggio di annientamento dei rivoltosi, non servivano più le parole ( la politica) ma la forza dell’Onu.

Ora con le operazioni avviate il ruolo dell’Italia deve essere vicino e di sostegno a quanto già afferma la Lega Araba: no ai bomabramenti sulle città, azioni a difesa dei civili, no fly zone, no tanks. La risoluzione ONU non è un via libera per guerra alla Libia ed alla caccia di Gheddafi, eppure alcuni politici e militari hanno già sostenuto questi obiettivi. Anch’essi fvanno fermati!!

 

Rimane aperto l’altro interrogativo: l’intervento armato dell’Onu, la “guerra” dell’Onu è un atto peggiore dell’eccidio che ci sarebbe stato dei rivoltosi di Bengasi e della repressione cruenta, o meno, di tutti coloro che in Libia si sono esposti in queste settimane?

Se tertium non datur, perché il tempo era scaduto per scelta di Gheddafi, la risoluzione Onu per quanto tardiva è una soluzione del “meno peggio”.

 

Alleghiamo alcuni documenti per l’approfondimento

  • Il testo della risoluzione Onu n.1973
  • Gli articoli Pro e Contro di Floris D’Arcais e Massimo Fini da MicroMega
  • L’editoriale "Senza ambiguità" di Sergio Romano del 19-3-11
  • Intervista a Giorgio Bocca del 20-3-11
  • Articolo di Rossana Rossanda polemica con il Manifesto già dal 9-3-11
  • I dubbi del vescovo di Tripoli, Martinelli
  • i due precedenti ONU di no fly zone:Bosnia e Iraq
  • Cent’anni di rapporti e scontri Italia-Libia

Allegato:
Risoluzione Onu 1973.doc
Pro e Contro_19-3-11.doc
SENZA AMBIGUITA’ di Sergio Romano 19-3-11.doc
Intervista a Giorgio Bocca_20-3-11.doc
Rossanda contro il Manifesto e commenti_9-3-11.doc
Libia,i dubbi del vescovo di Tripoli.doc
i due precedenti no-fly zone.doc
Cento anni Italia-Libia.doc

2 commenti
  1. noname
    noname dice:

    Riservandomi di intervenire nei prossimi giorni non posso non apprezzare l’onestà intellettuale ,e non solo ,di R. Rossanda. Rossanda pone gli interrogativi utili più che giusti. Utili perchè ci richiama alle nostre responsabilità di persone di sinistra più propense alle grandi discussioni sui principi che alle analisi della realtà " così come si presenta". Sulla realtà così come si presenta si possono avere pareri diversi . Debbono però essere basati su una conoscenza della situazione ed una analisi imparziale ( se possibile ). Su questo ebbi occasione di polemizzare a suo tempo con il Manifesto sul Kossovo. Onestamente trovo un pò strano che si qualifichi il regime di Gheddafi con termini non molto lontani da quelli che si usano per il nazismo e che la conclusione sia "troviamo una soluzione politica ".Era possibile con il nazismo ? Io non credo che Gheddafi sia un nazista, che abbia un certo consenso nella Tripolitania è quasi certo ( non lo dico io ma alcuni analisti conoscitori della società libica )ma che è comunque bene per i libici ( e non solo) che se vada al più presto . Non credo neppure che il futuro sia così tragico come quello descritto da Crepoldi sulla Repubblica. Dipende da cosa sappiamo fare noi nell’altra sponda del Mediterraneo di diverso dal passato, compresa la sinistra. Come lo si manda via ? Non so , sinceramente se l’intervento sia la soluzione. Ma non conoscendo la libia se non per le cose che leggo e per una breve vista a Tripoli nel passato non mi permetto di dare giudizi. Sono però dell’idea che il problema non può essere affrontato nei termini di " guerra e pace ", ma del minimo che si può fare senza cadere nella omissione di soccorso. Per questo bisogna avere, appunto le conoscenze che non mi pare di intravedere nella querelle in corso.Inoltre occorrerebbe partire anche dalle nostre responsabilità come sinistra . Che senso ha ad esempio invitare ong libiche ai forum mondiali e non porgli neanche una domanda sulla situazione del loro paese ? Ascoltare le loro sparate sui diritti umani senza fargli perlomeno veder i rapporti di Amnesty International ? Che senso ha affermare come ha fatto V. Parlato  " che Gheddafi ha sbagliato ad incontrare Berlusconi " ? Quale politica del Mediterraneo si propone e con chi ? Come ? Con quali strumenti ?Tutte cose che non si sublimano con dichiarazioni di principio. Non chiedetemi se la mia angoscia è pari a quella di chi " è contro a priori ". Di guerre in giro per il mondo c’è ne sono state tante ( alcune anche innescate dal colonnello ). e continuano ad esserci. Non lantano dalla Libia c’è ad es. la Costa d’Avorio. Non mi angosciano di meno. Su questo piano non si può discutere. Nessuno ha il monopolio dell’indignazione ne della tristezza di fronte ai conflitti. Ciascuno si tenga la sua e non pensi che sia la più giusta.

    Toni Ferigo

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  2. redazione-d84
    redazione-d84 dice:

    Libia: SI all’aiuto umanitario, NO alla guerra

    Condivido la descrizione e l’analisi di Adriano sui fatti della Libia ma oggi ritengo necessario esprimere un chiaro NO alle azioni militari, intraprese da una disomogenea coalizione. Nessuna attenuante per Gheddafi e pieno sostegno ai Ribelli che chiedono libertà e democrazia, ma non possiamo accettare ed assistere passivamente a vere e proprie azioni di guerra con tante quante inutili bombe sulle città libiche.
    La strategia della “grandeur” francese, unitamente al Regno Unito, punta alle materie prime del sottosuolo libico ed i massicci bombardamenti intrapresi provocano distruzione e morte, senza produrre un sostanziale aiuto umanitario alle sofferenti popolazioni; nel contempo l’inadeguatezza e le contraddizioni del nostro Governo hanno portato l’Italia in mezzo al guado.
    Mi domando: è ancora possibile svolgere un ruolo umanitario a difesa dei libici che cercano una vita migliore, lottano per il diritto di protesta, la democrazia, la fine dei privilegi e del dominio del Rais? E’ possibile essere d’aiuto senza, nei fatti, fare una guerra?
    Credo di SI, è difficile ma si può a patto che chi promette aiuto umanitario sia mosso da questa scelta e non da interessi economici, da un nascosto proposito di sfruttamento come sempre è avvenuto da parte dei potenti occidentali, dalla voglia di sopraffare e di imporre regole, comportamenti, culture. L a democrazia non si può esportare con la violenza e con le armi, l’insegnamento della storia di questi recenti decenni è più che chiaro.
    E’ la politica a dover riprendere il proprio ruolo di soggetto che tratta, che interviene con moderazione, che rispetta il diritto internazionale, che non invade altri paesi, che non ammazza né distrugge a tappeto i beni altrui e, nel caso specifico della Libia, tutti debbono rispettare la risoluzione dell’ONU numero 1973 che pone limiti alle azioni militari.
    Dobbiamo attivarci per evitare una nuova guerra e non solo perché è contigua al nostro Paese, ma perché la guerra va bandita: dobbiamo mobilitarci, far sentire la voce avversa ad azioni militari di guerra;  personalmente, sono critico col mio partito, il PD, che sulla vicenda non assume una posizione di chiara contrarietà all’uso della forza militare indiscriminata e prepotente.
                                                   Beppe Mainardi
    Torino, 23 marzo 2011
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