Gli Usa e il Medio Oriente

Antonio Lettieri in Gli Stati Uniti e la guerra nel Medio Oriente, sul sito www.uguaglianzaeliberta.it, commenta gli eventi principali che nel corso degli ultimi due anni hanno mutato le alleanze mondiali e indebolito il ruolo degli Usa. Al centro della riflessione Gaza e Ucraina. La guerra a Gaza sembra avere per il leader israeliano di Netanyahu un solo obiettivo: ridurre la Palestina a un territorio diviso e disarmato sotto il pieno e definitivo controllo di Israele. I repubblicani Usa intanto bloccano i nuovi aiuti all’Ucraina, usando le guerre ai fini della campagna elettorale. Di seguito il testo.

<< Le elezioni americane del prossimo novembre presentano particolari caratteristiche. Joe Biden è considerato non solo un candidato molto avanti nell’età avendo superato gli ottanta anni, ma con problemi di memoria. Sull’altro lato, il suo contendente, Donald Trump, si presenta per la  seconda volta dopo essere stato battuto concludendo il primo mandato di presidente – una circostanza che si è verificata molto di rado.

Le due candidature potrebbero essere confermate a luglio quando saranno definitive. Ma rimane il fatto che il nuovo presidente  dovrà affrontare situazioni nuove e particolarmente complesse. A Taiwan le elezioni presidenziali sono state vinte da un candidato favorevole alla politica americana ma con un risultato di poco superiore al contendente, mentre il suo predecessore aveva conquistato la presidenza con la maggioranza assoluta dei voti. In altri termini, Taiwan, a poco più di cento miglia dalla Cina continentale, apre un nuovo difficile capitolo per la politica americana.

Dall’altro lato, in Ucraina, il governo  americano contava di poter liquidare, insieme con  Vladimir Putin, l’attuale assetto della Russia, ma ciò non si è verificato. E il Partito repubblicano è schierato contro l’ulteriore finanziamento di 60 miliardi di dollari a favore dell’Ucraina sostanzialmente annullando il sostegno americano. Una posizione che contrasta con la decisione della Commissione europea a favore di un finanziamento all’Ucraina di cinquanta miliardi nei prossimi quattro anni – un finanziamento non confrontabile con la spesa militare americana degli ultimi due anni a sostegno dell’Ucraina.

Il conflitto di Gaza

Ma, al di là di queste circostanze, l’assoluta novità è la guerra nel territorio di Gaza sotto la direzione di Netanyahu a capo del governo di Israele. Una guerra che ha già comportato la sostanziale distruzione della capitale e delle principali città di Gaza, con oltre un milione e mezzo di palestinesi che, avendo perduto l’abitazione, vivono sotto le tende in massima parte sulle sponde del Mediterraneo. Mentre oltre 30 mila palestinesi, in larga misura giovani e bambini con un’età media inferiore a 18 anni, sono stati uccisi dai bombardamenti e decine di migliaia feriti.

La presidenza di Biden avrebbe voluto fermare l’attacco israeliano nel territorio di Gaza in vista delle elezioni americane. Ma senza nessun esito. Il segretario di Stato Antony Blinker ha instancabilmente viaggiato tra gli Stati mediorientali alla ricerca di alleanze favorevoli a una tregua, ma  senza nessun esito.

Per Netanyahu l’obiettivo non è solo la liberazione di circa 150 israeliani ancora prigionieri di Hamas, ma l’isolamento definitivo di Gaza (con circa 2 milioni e trecentomila abitanti) dalla Cisgiordania, dove vivono  circa tre milioni di palestinesi sotto l’apparente governo di Abu Mazen distintosi per la sua sostanziale subalternità a Israele e per l’opposizione a Hamas isolata nella Striscia di Gaza.

La Grande Israele

Per Netanyahu la frantumazione della Palestina deve essere radicale e definitiva nel contesto di una grande Israele. Un’opzione, in effetti, non nuova, ma coltivata da Netanyahu da quando nel 1996 assunse per la prima volta il governo di Israele. Negli anni immediatamente precedenti si era chiaramente delineata la possibilità di un nuovo capitolo della storia israeliano- palestinese. Yitzhak Rabin, per la seconda volta a capo del governo israeliano, aveva stipulato un accordo con Arafat sotto la direzione di Clinton, presidente degli Stati Uniti, come mostra una famosa fotografia che li ritrae insieme.

Era una novità tale da cambiare la storia del medio Oriente, ma Rabin fu assassinato nel 1995 da un giovane appartenente alla destra israeliana. Con l’ascesa al governo nel 1996 di Benjamin Netanyahu, a capo della destra israeliana, il processo  s’interruppe. E l’esito, dopo quasi trent’anni, è la guerra in corso.

Il Medio Oriente

La questione palestinese ha assunto una dimensione globale. L’Arabia Saudita ha rinnovato i rapporti di collaborazione con l’Iran, suo tradizionale avversario, con la mediazione del presidente cinese Xi Jinping, giunto a Riyad a dicembre per incontrare il principe Salman capo del governo saudita.

Il 15 dicembre le delegazioni di tre Paesi (comprendendo l’Iran che aveva un precedente accordo con la Cina) si sono riunite a Pechino, costituendo un Comitato tripartito saudita-cinese-iraniano. Un accordo che nel testo finale dichiara la necessità di una cessazione immediata della campagna militare in Gaza e il riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente. Il convegno si è concluso decidendo un nuovo incontro nel giugno 2024 in Arabia Saudita.

Le nuove alleanze non sono state l’unico cambiamento importante nello scenario mediorientale. L’Iran ha rafforzato i rapporti con la Federazione Russa con la quale condivide un tratto di confine sulle rive del Mar Caspio: un’alleanza importante considerando che l’Iran è il principale sostenitore dei militanti libanesi Hezbollah ai confini di Israele.

Nello stesso periodo, il presidente iracheno Mohammed al-Sudan si è recato a Mosca dove si è intrattenuto con Putin, consolidando ed estendendo le relazioni dell’Iraq con la Russia.

Non è, tuttavia, l’unica novità sullo scenario mediorientale.  In questo nuovo quadro di alleanze, va sottolineato che gli Houthi, che hanno l’effettivo governo dello Yemen, dopo una guerra decennale, nella primavera del 2023, hanno stabilito rapporti di collaborazione con l’Arabia Saudita. In questo nuovo quadro, lo Yemen ha conquistato una posizione strategica sulla rotta tra il Golfo di Aden e il Canale di Suez con la possibilità di bloccare le navi dirette verso l’Europa e il Vicino Oriente.

In effetti, i bombardamenti americani dello Yemen non hanno avuto effetti significativi. E  In questo contesto il previsto dispiegamento di parte della flotta italiana nel Golfo di Aden non avrà alcun significato  sostanziale, dal momento che le flotte mercantili, per sfuggire agli attacchi, hanno deciso di circumnavigare l’Africa per raggiungere il porto di Rotterdam nei Paesi Bassi. Una decisione che impone di navigare per circa dieci giorni in più e che fa aumentare il livello dei prezzi delle merci importate in Europa.

Il cambiamento di scenario

L’Europa soffre in modo particolare le conseguenze del conflitto. La Germania registra una crescita sotto lo zero, la Francia e l’Italia intorno allo 0.5 per cento. Nettamente diversa la posizione degli Stati Uniti che anno chiuso l’anno con la maggiore crescita del mondo occidentale pari al 3,2 per cento.

Ma il governo democratico americano non riesce a riprendere il tradizionale controllo del Medioriente. Netanyahu oltre all’invasione e alla sottomissione  della Striscia di Gaza  punta a rafforzare il controllo sulla Cisgiordania, governata da Abu Mazen da quasi venti anni, e dell’est di Gerusalemme.

Per Netanyahu il conflitto deve risolvere definitivamente il rapporto fra Israele e la Palestina, riducendola a un territorio diviso e disarmato sotto il pieno e  definitivo controllo di Israele. Il suo potente armamento, che comporta anche la disponibilità dell’armamento nucleare – essendo Israele  uno degli otto paesi che a livello globale ne dispongono – rende praticamente scontato l’esito del conflitto, il cui obiettivo è il riconoscimento di Israele come Stato sovrano che non ammette al suo interno uno stato indipendente.

Dal punto di vista quantitativo le due popolazioni sono equivalenti. La metà di tutti i palestinesi (oltre sette milioni) vive nella vecchia Palestina – di cui circa due milioni in Israele e Gerusalemme Est – e un numero equivalente fuori, soprattutto nei paesi circostanti. Un numero complessivo di palestinesi, oltre 14 milioni, sostanzialmente uguale a quello degli israeliani, di cui circa la metà vive in Israele e gli altri prevalentemente tra Stati Uniti (circa cinque milioni) ed Europa.

Le difficoltà degli Stati Uniti sono evidenti. Le elezioni del prossimo novembre si svolgeranno in un contesto definito dalla loro impotenza a fermare l’aggressione a Gaza e ad avviare una nuova fase nel rapporto fra Israele e Palestina. Una circostanza che pone gli Stati Uniti in pieno contrasto con il mondo mediorientale sostenuto dalla Cina e dalla Russia.

L’America, dopo oltre settanta anni di collaborazione con Israele, è in una condizione senza precedenti. Hamas può essere sconfitta dalla potenza militare israeliana ma, per la prima volta, ha assunto un ruolo internazionale.

Gli Sati Uniti, quale che sia il risultato delle elezioni di novembre, dovranno affrontare una situazione senza precedenti che vede schierati il Medio Oriente e le principali potenze globali- dalla Cina alla Russia, al Brasile, al Sudafrica – a favore di una soluzione che riconosca l’indipendenza della Palestina a fianco di Israele.

Il futuro è incerto. Ma il cambiamento di scenario  a livello mondiale è evidente In un quadro dominato  dal problema palestinese. In questo scenario si distingue il sostanziale silenzio di gran parte dell’Europa che ha come principale scelta politica l‘avversione a Hamas che, riconosciuta a livello internazionale, rimane al centro del futuro della Palestina e dei rapporti con Israele.>>

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