COSA MANCA PER LA CRESCITA – N.Cacace – economia & lavoro 23/12/11

Rilanciare a crescita è necessario ma è molto difficile. Bisogna invertire un trend storico negativo: il Fmi ci posiziona al penultimo posto nell’ultimo decennio, 179° su 180 Paesi (solo Haiti, terremotata, ha fatto peggio) mentre siamo, col Giappone, primi per vecchiaia di popolazione.

Il potere d’acquisto delle famiglie è sotto il livello del 2000, il debito pubblico è a livelli record, la distribuzione dei redditi è iniqua, 2 milioni di famiglie posseggono il 45% della ricchezza privata. Abbiamo una denatalità dimezzata che dura da 35 anni, il più basso tasso di occupazione (occupati/popolazione 15-64 anni), 57% a fronte del 65% europeo e del 72% nord-europeo. Abbiamo inoltre il più alto tasso di disoccupazione di giovani e donne per cui quasi 50mila giovani emigrano ogni anno per trovare un futuro. Tutto questo perché l’Italia non è cambiata mentre il mondo cambiava, non si è adeguata alla globalizzazione ed alla moneta unica puntando sulla qualità e non sui bassi salari.

 

Quando miliardi di lavoratori dei Paesi emergenti dal basso costo lavoro sono comparsi sul mercato dei prodotti, molti Paesi industriali hanno cambiato radicalmente strategie produttive, dalla Germania alla Francia, dall’Olanda ai Paesi scandinavi. L’Italia ha continuato ad occupare la scala inferiore dei segmenti produttivi, nell’industria, nel turismo, nei servizi, senza rendersi conto che moneta unica e globalizzazione non lasciavano alternative ad una politica industriale «di innovazione e qualità».

 

Conseguenze? Impoverimento, bilancia di industria e servizi sempre più in deficit, occupazione calante, redditi stagnanti, calo di domanda e di Pil. Sarebbero stati necessari investimenti in scuola e ricerca, investimenti in settori ad alta crescita dell’industria e dei servizi, assieme a politiche industriali pro innovazione.

Che fare per rilanciare la crescita? Anzitutto arrestare il declino demografico, fattore economico negativo più che non si creda, poi seguire la lezione dei paesi del Nord Europa che con politiche di innovazione e redistribuzione, crescono di più e diventano più ricchi ed egualitari. La «vecchiaia» fa crollare anche gli investimenti diretti esteri (Ide). Siamo all’ultimo posto nel rapporto tra Ide ed investimenti fissi lordi, il 3%, contro il 30% della Svezia, malgrado primati ritenuti negativi, ma non lo sono, come le alte tasse.

 

Una seconda operazione consiste nel promuovere le infrastrutture materiali ed immateriali necessarie alla produzione, dai costi dell’energia a quelli della logistica, dalle reti a banda larga all’istruzione.

 

Un terzo gruppo di azioni di politica industriale concerne il sostegno diretto all’offerta, cioè alle imprese produttive, utilizzando le reti e gli spazi oggi ammessi dalla Ue, innovazione, ricerca, formazione, ambiente. Sono spazi che l’Italia, a differenza di altri Paesi – la Germania ha finanziato le ricerche sull’auto ibrida, la Spagna le energie rinnovabili, etc. – ha utilizzato poco e male.

 

La politica industriale va articolata anche sulla base di problematiche specifiche. Macchine utensili, alta moda, alimentari sono settori in salute a prescindere dalla crisi in atto, sia come domanda globale che come offerta nazionale, mentre settori come elettronica, informatica, mezzi di trasporto mostrano ampi buchi di produzione nazionale, a cominciare dall’automobile dove siamo diventati produttore marginale con meno di un milione di auto prodotte contro i cinque milioni della Germania e i due della Francia.

 

Dall’elettronica siamo scomparsi sia in quella industriale che in quella di consumo, nell’informatica siamo deboli (banda larga). Problematiche diverse sono comuni ad altri settori, tessile-abbigliamento ed elettrodomestici, a domanda calante e a forte concorrenza di Paesi emergenti che vanno aiutati a ristrutturarsi. Per ultimo, una politica industriale va fatta per i servizi, dato il loro peso crescente.

 

Senza, nessun Piano per il lavoro avrà successo.

 

 Nicola Cacace

 
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