Salario minimo
“Il problema da risolvere” – Giovanni Graziani interviene – https://www.il9marzo.it/?p=8382 – con un contributo che rilancia i motivi a sostegno di una legge per il salario minimo, cosa che la Cisl aveva sostenuto negli anni Sessanta e che in Germania è stata realizzata da cinque anni con risultati pienamente soddisfacenti. A smentita delle posizioni contrarie della Cisl di oggi, ed a conferma ulteriore della pochezza di chi la guida un po’ a tutti i livelli. Riproduciamo il testo.
Al Cnel sono depositati ben 922 Ccnl vigenti (aggiornamento al 31-12-2019, erano 855 sei mesi prima) e il 59% di questi è scaduto. Circa 11 milioni di lavoratori del settore privato hanno un contratto collettivo di lavoro scaduto. E’ quanto emerge dal 10° Report dell’Archivio Nazionale dei Contratti Collettivi del Cnel. https://www.italiaoggi.it/news/lavoro-cnel-in-italia-ci-sono-922-ccnl-vigenti-e-il-59-di-questi-e-scaduto-202002051601078743
Il Sole 24 Ore del 27 agosto scrive che “fra industria alimentare e agricoltura, in Italia mancano all’appello 64 mila lavoratori”. E il problema non è solo di questi settori , né solo italiano, visto che sul Manifesto dello stesso giorno si racconta di un’Inghilterra dove, fra Brexit e Covid, le merci non arrivano sugli scaffali dei supermercati perché manca chi le trasporta e poi manca chi le scarica. Insomma, il lavoro come fatica, come atti concreti che costano sudore, è ancora necessario dell’epoca delle app e delle start up. Solo che manca chi lo fa.
Se l’espressione “mercato del lavoro” non fosse una finzione, la soluzione sarebbe semplicissima: in presenza di una domanda insoddisfatta di lavoro nelle imprese e di forza lavoro non occupata alle condizioni date, basterebbe aumentare la retribuzione offerta per aumentare la propensione dei non occupati ad accettare lavori che non richiedono, nella maggior parte dei casi, una particolare qualificazione (l’articolo del Sole fa l’esempio dei carrellisti, per i quali bastano “pochi giorni e un patentino”).
Ma se le cose non vanno così, se mancano i lavoratori eppure le retribuzioni non vengono aumentate, vuol dire la legge della domanda e dell’offerta qui non vale, che il famoso mercato del lavoro non esiste ma è una formula bugiarda per indicare qualcos’altro. E che i salari seguono un’altra logica.
Quest’altra logica è quella che, non solo in Italia, è diventata moneta corrente dalla fine degli anni Settanta in poi, e cioè il pensiero unico che prende il nome ora di moderazione salariale, ora di sostegno all’offerta, ora di politica deflazionistica, ora di impegno per la competitività, ora di aiuto alle esportazioni e simili. Tutte formule che indicano un modo di pensare e di agire secondo cui bisogna aiutare le imprese comprimendo il costo del lavoro perché in questo modo si fanno automaticamente anche gli interessi della classe lavoratrice in termini di garanzia dell’occupazione e della retribuzione.
Sono decenni che i sindacati hanno accettato questo modo di pensare come se fosse una verità definitiva e totale, tanto che non sono più capaci neanche di capire il problema. Con il risultato che l’occupazione è garantita fino ad un certo punto (cioè per tutti coloro che non la perdono) che le retribuzioni sono ferme soprattutto per le fasce basse di reddito (lo ricordava Fausto Scandola nel sottolineare che nella Cisl le retribuzioni dei rappresentanti avevano avuto un andamento crescente opposto a quello dei rappresentati, e la cosa non andava bene) e che i lavori meno retribuiti non sono ragionevolmente accettabili se non da chi, come gli immigrati, si trova in condizioni particolari di bisogno.
Questa è la situazione tragica del momento attuale. Da una parte, la strategia della svalutazione del lavoro (integrata da politiche di sostegno ai redditi insufficienti che mettono a carico della collettività costi di cui si sgravano le imprese) non è più sostenibile quando i livelli retributivi sono tali da costituire un disincentivo all’occupazione. D’altra parte i sindacati non sono più capaci di imporre una politica salariale di rivalutazione del lavoro perché non ne hanno la forza organizzativa (gli iscritti fatti con i servizi non danno forza contrattuale) e perché non hanno più neanche l’idea di cosa voglia dire essere autorità salariale (fra l’altro i contratti collettivi sono pieni di materie che sono oggetto di scambio con le controparti nell’interesse dei rappresentanti più che dei rappresentati. E dopo che si ottiene qualcosa per sé è più difficile rivendicare qualcosa per gli altri anche se sono quelli che dovresti rappresentare).
In altri paesi, e anche dove i sindacati hanno una maggior capacità di sostenere l’eventuale conflitto, la questione delle retribuzioni non è rimasta una materia interna ai rapporti privati collettivi: l’esempio della Germania, che ha fissato per legge il salario minimo (o Mindestlohn) è il più chiaro. Dopo che negli anni di Schroeder era stata seguita una linea di sostegno all’offerta a vantaggio delle imprese ed a carico delle casse pubbliche, cioè permettere l’esistenza di rapporti di lavoro con retribuzioni inferiori alla soglia di povertà ma che davano accesso alle integrazioni di sostegno al reddito, si è passati al sostegno alle retribuzioni fissando una paga oraria al di sotto della quale non si può scendere (con poche eccezioni esplicitamente previste).
A chi prevedeva ogni genere di disastro a seguito dell’intervento dello stato nella materia retributiva (disoccupazione, inflazione, perdita di competività e crollo delle esportazioni, distruzione dell’autonomia contrattuale collettiva) è facile rispondere oggi che nulla di tutto questo si è verificato, e che il valore del lavoro è stato almeno parzialmente ripristinato, permettendo a molte persone di poterne vivere senza bisogno di dover passare da integrazioni e sussidi statali.
Ed ai sindacati italiani che rifiutano questo ragionamento perché temono la concorrenza del salario minimo rispetto al salario contrattuale è facile obiettare che i contratti collettivi che non reggono il minimo hanno un problema nel motore. Ma la verità è che, per dare valore al lavoro, oggi le confederazioni storiche, e la Cisl più delle altre, non sono una soluzione, ma sono una parte del problema.
Anzi, sono il problema che, prima o poi , dovrà essere risolto, E non certo da chi si immagina di dare attuazione all’articolo 39, che servirebbe solo a cementarne erga omnes quel potere rappresentativo che da anni non sono più interessate a svolgere, o comunque non ne sono capaci, nell’interesse di chi vive del lavoro. Giovanni Graziani.
Un bravo ben meritato a Giovanni Graziani! Questo articolo ben descrive uno dei problemi più complessi del lavoro, in particolare in Italia. Facciamolo circolare con le nostre mailing, pagine facebook e blog. Al Cnel sono depositati ben 922 Ccnl, in crescita nel 2019! L’articolo evidenzia la debolezza della strategia sindacale proponendo un cambiamento. Condivido pienamente l’indicazione di Giovanni per risolvere il nodo sindacale: “… Ed ai sindacati italiani che rifiutano questo ragionamento perché temono la concorrenza del salario minimo rispetto al salario contrattuale è facile obiettare che i contratti collettivi che non reggono il minimo hanno un problema nel motore”. Ovvero quei contratti collettivi vanno modificati se stipulati da sindacati rappresentativi oppure annullati se sottoscritti da “sindacati fantasmi”, il che chiama in causa la norma “erga omnes” e la verifica reale della rappresentatività categoriale, un problema da anni sul tappeto nonostante la firma di Protocolli nazionali tra Confederazioni sindacali e datoriali decantati in grande pompa. Il salario minimo definito per legge, da aggiornare periodicamente, può ben essere indicato e proposto al Parlamento da una apposita Commissione che includa i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro. Adriano Serafino
Sono completamente d’accordo con la vostra analisi.
Il salario minimo per legge, visto la situazione economica , sociale e in assenza di una vera contrattazione sindacale è una misura indispensabile e non più rinviabile di civiltà ed equità sociale