La democrazia si salverà
Lo studioso Yascha Mounk, nel suo ultimo saggio, spiega perché “in questo difficile momento storico non è facile essere ottimisti… Se vogliamo assicurare un futuro roseo alle democrazie multiculturali, dobbiamo coinvolgere le tante persone che hanno un atteggiamento ambivalente nei confronti del grande esperimento… Ci vorrebbe un ottimismo cieco per non vedere che le nostre democrazie hanno un bisogno disperato di migliorare…”
di Yascha Mounk La Repubblica 14-6-22
Nel Settecento i Padri Fondatori degli Stati Uniti si imbarcarono in un grande esperimento di democrazia moderna quando crearono una repubblica indipendente in un’epoca in cui iniziative simili erano fallite miseramente in tutti i paesi che avevano provato a portarle avanti. Ignoravano quale sarebbe stato il risultato finale, ma sapevano che una “lunga serie di abusi” non lasciava loro altra scelta, se volevano rimanere fedeli ai loro ideali. Oggi ci stiamo imbarcando in un’impresa altrettanto nuova. In un’epoca che fornisce ben pochi precedenti in tal senso, siamo capitati dentro un grande esperimento volto a costruire democrazie molto eterogenee che riescano a sopravvivere e, si spera, anche a trattare equamente i propri membri.
Questo grande esperimento è l’impresa più importante del nostro tempo. È iniziato senza che ci fosse uno sperimentatore consapevole. Non c’è accordo sul tipo di regole e istituzioni che possono contribuire al suo successo. E, sempre di più, stiamo perdendo di vista l’obiettivo: una visione del futuro che possa essere accettata incondizionatamente tanto dalla maggioranza quanto dalle minoranze. Chi guarda al grande esperimento con pessimismo non dipinge una visione realistica dello stato attuale delle democrazie multiculturali, né del loro possibile futuro.
Alcuni pessimisti sostengono che gli immigrati e altri membri delle minoranze non riescano a inserirsi nella società perché sono stupidi, pigri o malvagi. Altri giustamente respingono questa analisi, attribuendo le condizioni socioeconomiche svantaggiate in cui si trovano le minoranze all’oppressione subita in passato e agli ostacoli che ancora oggi devono affrontare. Tuttavia entrambe le prospettive trascurano il fatto che in realtà questi gruppi hanno compiuto significativi passi avanti verso l’uguaglianza.
Nella maggior parte delle democrazie con una composizione eterogenea, i discendenti degli immigrati e i membri delle minoranze stanno salendo in fretta nella scala sociale. La percentuale di laureati è molto più alta. Il loro reddito cresce rapidamente. In campi che vanno dagli affari alla cultura alla politica, stanno conquistando posizioni di potere e prestigio che per i loro genitori o nonni erano semplicemente inimmaginabili. Anche le opinioni diffuse su razza e religione stanno cambiando rapidamente. Dalla Svezia all’Australia, è sempre meno probabile che i cittadini abbiano un atteggiamento ostile nei confronti delle minoranze razziali o religiose, mentre sono molto più propensi ad accettare che un individuo possa essere un vero svedese o un autentico australiano anche se è di un’altra religione o non ha lo stesso colore della pelle.
Negli Stati Uniti c’è ancora chi ricorda quando nel paese vigeva ufficialmente la segregazione e le persone si odiavano apertamente. La legge rendeva molto difficile stringere rapporti di amicizia tra bianchi e neri e i matrimoni misti erano vietati. Oggi esistono normative severe per punire le aziende che praticano forme di discriminazione e incarcerare chi commette crimini di odio. Il numero di amicizie, relazioni e famiglie interrazziali è in continuo aumento. Il divario razziale a livello di reddito, istruzione, aspettativa di vita e tasso di incarcerazione rimane significativo, ma diminuisce in maniera costante.
Malgrado l’ombra del passato, molte democrazie stanno compiendo passi concreti per includere la diversità nel proprio concetto di sé. Una valutazione troppo pessimistica dello stato attuale delle democrazie multiculturali non è solo sbagliata nel merito. Dipingendo una visione profondamente negativa del futuro, danneggia anche le prospettive del grande esperimento. Le persone che si interessano di politica tendono ad avere opinioni estremamente polarizzate sui temi più dibattuti del momento. Chi è a favore delle democrazie eterogenee crede che le difficoltà nel costruirle dipendano principalmente dalla maggioranza razzista e intollerante; chi è contrario attribuisce tutti i problemi attuali agli immigrati e alle minoranze.
Ma gli altri cittadini, ovvero la stragrande maggioranza della popolazione, sono molto meno interessati alla politica e hanno un atteggiamento ambivalente nei confronti delle questioni chiave legate alle politiche pubbliche. Vogliono che il grande esperimento abbia successo, ma temono anche che l’aumento della diversità possa creare problemi concreti o determinare cambiamenti inusitati nel loro paese. Allo stesso modo, deplorano le ingiustizie subite da molti loro compatrioti, ma temono anche che la crescita dell’immigrazione possa portare a un aumento della criminalità o del terrorismo.
Se vogliamo assicurare un futuro roseo alle democrazie multiculturali, dobbiamo coinvolgere le brave persone che hanno questo atteggiamento ambivalente nei confronti del grande esperimento. Ma sarà difficile convincerle offrendo loro una valutazione irrimediabilmente negativa del loro paese. E nemmeno si impegneranno a favore di democrazie più giuste se le spingeremo a credere che, anche nella migliore delle ipotesi, queste democrazie finiranno per essere distrutte da una lotta per la sopravvivenza tra i diversi gruppi identitari.
Ci sono motivi concreti per temere che il grande esperimento vada a finire male. È del tutto possibile che molte ingiustizie tipiche delle democrazie multiculturali di oggi continuino a esistere anche tra venticinque o cinquant’anni. Ma è troppo presto per rassegnarci a una visione del futuro in cui la maggior parte delle persone guarderà ancora con sospetto chi è di un’altra religione o non ha lo stesso colore della pelle; in cui i membri di gruppi identitari diversi avranno pochissimi contatti gli uni con gli altri nella vita quotidiana; in cui tutti noi sceglieremo di enfatizzare le differenze che ci dividono anziché le somiglianze che potrebbero unirci; e in cui la battaglia politica e culturale vedrà ancora contrapposti cristiani e musulmani, nativi e immigrati, bianchi e neri.
Deridere le visioni del futuro un po’ più ambiziose di così, definendole ingenue o utopistiche, può sembrare una mossa intelligente o sofisticata. Ma di fatto il grande esperimento avrà maggiori probabilità di successo se i suoi più accesi sostenitori tenteranno di creare società in cui le persone vorranno davvero vivere.
Per costruire società di questo tipo, dobbiamo insistere sul fatto che i limiti di oggi non devono necessariamente diventare le realtà di domani. I membri delle democrazie eterogenee possono stringere legami ancora più forti di cooperazione e persino di amicizia. Le culture nazionali possono accogliere i nuovi arrivati come membri in tutto e per tutto uguali agli altri. Le persone che provengono da gruppi etnici e culturali diversi possono imbarcarsi in una vita condivisa significativa, senza dover rinunciare alla propria identità. E le identità ascritte, come la razza, possono diventare meno importanti di quanto non siano oggi: non perché le persone decideranno di non vederle, ma perché avremo smantellato molte delle ingiustizie che oggi le rendono così visibili.
In questo difficile momento storico non è facile essere ottimisti. In più, sono uno che metteva in guardia contro la grave minaccia dei populisti autoritari da ben prima che Trump vincesse le presidenziali americane del 2016, perciò forse non sono la prima persona che vi verrebbe in mente pensando all’ottimismo. Eppure devo ammettere di sentirmi molto più speranzoso riguardo al futuro di quanto non si tenda a essere oggi. Ci vorrebbe un ottimismo cieco per non vedere che le nostre democrazie hanno un bisogno disperato di migliorare. Ma ci vorrebbe un cinismo ancora più cieco per credere che abbiamo perso la capacità di incrementare i progressi compiuti negli ultimi cinquant’anni o che, a prescindere da quello che facciamo, le nostre società siano condannate a essere definite per sempre dal razzismo e dall’esclusione. La strada verso il successo del grande esperimento sarà accidentata. Ma il prezzo del fallimento è troppo alto per accontentarci di qualcosa in meno o per arrenderci a metà del viaggio.
Il libro – Il grande esperimento di Yascha Mounk (Feltrinelli, traduzione di Francesca Pè, pagg. 304, euro 20)
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