L’Associazione “Biondi Bartolini” non poteva dare titolo più felice al convegno fiorentino del 15 ottobre per rivisitare l’opera del più amato protagonista e interprete del Novecento sindacale e politico italiano. Sintetizzarne lo spirito è per me un cimento arduo. Preferisco proporre un’antologia di frammenti e di suggestioni, rimandando alle relazioni di Chiara Colombino (Foa azionista), di Stefano Musso (Foa e il sindacato) e di Andrea Ginzburg (Foa insegnante di economia).
Della grande anima della sinistra italiana, Pietro Marcenaro ci ha offerto un ritratto a tutto tondo, senza tuttavia pretendere di fornire un’interpretazione autentica delle continuità e delle rotture che hanno attraversato il suo itinerario politico. D’altra parte, prendendo la parola prima di Marcenaro, Andrea Ginzburg aveva indicato nella ricerca dell’autonomia e della libertà la feconda “matrice anarchica” da cui sgorgava il suo inesausto rifiuto di ogni irrigidimento dogmatico o scolastico. Al primo posto stava la volontà di sperimentare nella mutevole realtà da esplorare, equilibri sempre aggiornati fra libertà e potere, fra il bene vitale dell’autonomia per i soggetti sociali e il necessario governo dei conflitti mediante la contrattazione, la codificazione legislativa, la regolamentazione istituzionale.
In questa luce, non c’è posto per la coerenza intesa come virtù che distingue gli irremovibili (da venerare con i loro messaggi esemplari e monocordi) dai traditori (da condannare). C’è un equilibrio in continuo movimento da conquistare, non per imporre il proprio esemplare protagonismo, ma per aiutare se stessi e gli altri a partecipare al cambiamento.
Memorabile nel 1979 l’aspro dialogo a distanza con Giancarlo Pajetta in due comizi alla porta 2 di Mirafiori. Coerenza non è ripetere oggi le cose dette ieri, perchè “si può cambiare idea per essere fedeli al partito, come si può cambiare partito per essere fedeli alle proprie idee. Entrambe sono forme rispettabili di coerenza”. Ed essere di sinistra vuol dire “non solo io, ma gli altri; non solo qui, ma altrove; non solo oggi, ma domani”.
Proprio il rifiuto primordiale di ogni irrigidimento alimentò la grande fede di Foa nell’unità sindacale. A dispetto delle più aspre competizioni del presente, ancora qualche giorno prima di morire, Foa ha chiesto a Marcenaro di telefonare a Epifani, Bonanni e Angeletti per sapere se, in occasione del suo compleanno, non volessero fargli il regalo di venire a prendere un caffè da lui.
Portando alla luce alcuni scritti non minori, ma solo meno conosciuti di Foa, Stefano Musso ha documentato che la propensione a respingere le formulazioni scolastiche non era un abito anticonformistico e neppure un’acquisizione estroversa degli ultimi anni.
In un intervento del 1932 (1) Foa sosteneva che “si può uccidere il profitto, ma mantenerlo in vita dopo averlo dissanguato è pretesa insostenibile”.
Già allora, Foa era pervenuto alla convinzione che fosse preferibile tutelare i lavoratori sul mercato del lavoro, piuttosto che pensare di poterlo fare mantenendo in vita artificialmente un’impresa sconfitta dalle turbolenze del mercato. Ida Regalia, sociologa dell’Università di Milano, ha osservato in proposito che la storia dell’Italia industriale sarebbe stata diversa se il movimento sindacale avesse ottenuto dai governi provvedimenti incisivi nella direzione auspicata da Foa. Ravviso una singolare e inquietante sintonia tra il Foa del 1946 e il Walter Mandelli del 1973 ad una tavola rotonda con Emilio Pugno, Fausto Bertinotti, Aventino Pace e Cesare Delpiano pubblicata da “Nuova società”. Così si esprimeva l’allora presidente dell’Amma torinese: “Il sistema è quello che è, e se non lo si vuole, lo si cambi, lo si sostituisca, si faccia la rivoluzione; ma non si pretenda che continui a funzionare dopo averlo rotto”.
Sono passati 37 anni e non so dire in quale misura il dibattito si possa dire disincagliato da questi scogli.
Nota 1 – si riferiva all’intervista di Agnelli all’United press in cui proponeva politiche di alti salari per superarare la grande crisi del 1929.
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