Mai in oltre 80 anni una donna aveva ricevuto la prestigiosa statuetta per la miglior regia di un film. E’ accaduto, nella notte degli Oscar, a Los Angeles alla vigilia dell’ 8 marzo. Il premio è stato assegnato a Kathryn Bigelow per il suo The Hurt Locker, un thriller militare su un plotone di artificieri operativi in Iraq. Ironia della sorte: ha battuto il kolossal più costoso della storia del cinema, Avatar, per la regia di James Cameron, ex marito della Bigelow. Un raggio rosa nel mondo internazionale dello spettacolo mentre il firmamento nazionale è ancora bigio per quanto riguarda il lavoro ( carriere e stipendi) dove perdurano due pesi e due misure per valutare la professionalità di una donna e quella di un uomo.
Pubblichiamo l’articolo di Roberta Lisi tratto da Rassegna Sindacale dell’ 8 marzo.
Lavoro, due sessi e due misure
Negli ultimi 20 anni i differenziali salariali tra uomini e donne non sono cambiati. Non solo le donne guadagnano meno ma anche la cassa integrazione guadagni (cig) è inferiore. Ma perché le donne guadagnano meno? E perché, in Italia, partecipano così poco al mercato del lavoro?
Era il 1993 quando la Commissione Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio affidò al Cespe – Centro studi di politica economica – una ricerca su “Differenziale salariale tra uomini e donne e progressione di carriera”. Il risultato fu chiaro e netto: le lavoratrici guadagnavano mediamente il 30 per cento in meno dei colleghi maschi. Oggi, a 17 anni di distanza, le cose non sembrano affatto cambiate, anzi. A fronte di una apparente parità data quasi per scontata e naturale dalle stesse donne, in realtà l’organizzazione e il mercato del lavoro sembrano in gran parte essere impermeabili alle peculiarità femminili.
E, dopo quasi due anni dall’inizio della crisi finanziaria ed economica, sono proprio loro a pagare il costo più alto: non solo continuano a guadagnare meno dei lavoratori, ma anche l’assegno di cassa integrazione è inferiore, e non basta. In realtà in Italia siamo di fronte al tentativo di una vera e propria espulsione delle donne dal mondo del lavoro. Molte sono le cause che concorrono a questo, non ultima un’idea di società che il governo di centro destra afferma attraverso modelli culturali che propone, leggi che approva, disegni che delinea, a cominciare dal “Libro Bianco” sul welfare del Ministro Sacconi. Ma andiamo con ordine.
Lo scorso marzo l’Ires Cgil ha pubblicato il IV Rapporto su “Salari, produttività e distribuzione del reddito”. Il quadro che emerge è davvero allarmante non solo per le condizioni materiali dei lavoratori e delle lavoratrici, ma per le stesse basi democratiche del nostro paese. Secondo i dati elaborati dall’Istituto di ricerca della Cgil, infatti, l’Italia è una repubblica fondata sulle disuguaglianze: dal 1995 al 2006 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75 per cento, mentre le retribuzioni sono aumentate solo del 5,5 per cento. Se guardiamo i numeri le donne sono quelle messe peggio. Sono circa 13,6 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese; 6,9 milioni di occupati ne percepiscono meno di 1.000 e di questi oltre il 60 per cento sono donne! Se si osservano i dati della retribuzione mensile dei dipendenti a tempo determinato del II trimestre del 2009, si scopre che anche tra i precari esiste chi strutturalmente guadagna meno, e pure in questo caso le precarie: sono più dei loro colleghi nelle fasce salariali fino a 500 e tra i 500 e i 1000 euro mensili, sono meno nelle fasce superiori
Questa disuguaglianza salariale, ovviamente, si ripercuote e ha conseguenze drammatiche in un’epoca di crisi come quella che stiamo vivendo. Un lavoratore in cassa integrazione “a zero ore” vede il suo stipendio passare dai 1.320 euro netti in busta paga ad appena 762; una lavoratrice in cig sempre “a zero ore”, con uno stipendio mensile di 1.100, ne riceve 634 netti.
Ma perché le donne guadagnano meno dei loro colleghi? E perché, in Italia, continuano a partecipare così poco al mercato del lavoro? E ancora, perché a 18 mesi dall’inizio della crisi sono loro, in prevalenza, ad aver smesso di cercare un impiego?
Due uomini, Marco Centra e Andrea Cutillo, hanno curato per l’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) un rapporto su “Differenziale salariale di genere e lavori tipicamente femminili”, ricco di dati e di analisi della letteratura in materia. Le conclusioni sono crude e semplici: i lavori a elevata concentrazione di occupazione femminile vengono pagati meno di quelli di pari grado ma ad elevata concentrazione maschile. E in qualche modo sono proprio le donne “causa” del proprio male.
Scelgono l’occupazione non innanzitutto in base allo stipendio ma privilegiano nella scelta (quando si ha la fortuna di poter scegliere), le proprie peculiarità, la flessibilità dell’orario, la compatibilità con il lavoro di cura che sono o saranno chiamate a compiere. Ma, in un’epoca nella quale sembra aver valore solo ciò che costa, questa appare come colpa grave. E poi il modello patriarcale che ancora ci pervade considera aggiuntivo e non primario il reddito femminile.
Ma lasciamo a Centra e Cutillo una riflessione che ci porta a ulteriori considerazioni: “Un aspettoche merita approfondimenti futuri – scrivono i due ricercatori – riguarda il fatto che le donne presenti sul mercato del lavoro risultano avere una produttività mediamente maggiore rispetto agli uomini, ma vengono comunque retribuite meno degli uomini. Questo dovrebbe portare i datori di lavoro a preferire l’assunzione di personale femminile. In realtà il tasso di disoccupazione femminile è storicamente più elevato rispetto a quello maschile. Questo indica l’esistenza di un’ulteriore discriminazione che opera nei confronti delle donne anche al momento dell’assunzione, verosimilmente dovuta a una valutazione che i datori di lavoro fanno sul rischio che le donne possano dedicarsi in maniera meno esclusiva al lavoro svolto rispetto agli uomini, probabilmente a causa degli impegni derivanti dalla gestione della casa e dalla cura dei figli”.
Sembra paradossale che, nel 2010 in Italia, a fronte di una scolarità femminile altissima e qualificata, a fronte di una “capacità produttiva elevata”, le donne siano ancora vittime di questa doppia discriminazione. In realtà viviamo in un paese nel quale impera la retorica della famiglia ma la fatica del lavoro di cura viene scaricata quasi integralmente sulle donne. Il libro Bianco di Sacconi disegna uno stato sociale sempre più residuale è affidato o al privato o alla famiglia cioè, appunto, alle donne. E anche il tanto sbandierato quoziente familiare per la determinazione del reddito da sottoporre a tassazione in realtà non è altro che un’istigazione alla non occupazione femminile o al lavoro nero delle donne.
Spiega Mara Nardini della Segreteria nazionale dello Spi Cgil: “Per le donne il quoziente familiare è un danno gravissimo, ed è un danno gravissimo anche per le famiglie a reddito basso o medio. Vanno rilevati due aspetti: uno che prevede un forte trasferimento di risorse a favore delle famiglie con redditi molto alti, l’altro che dà un premio alle famiglie dove la donna non lavora o ha un reddito molto basso. È quindi un meccanismo che scoraggia oggettivamente il lavoro delle donne. Questo in un paese come l’Italia, dove il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi dei paesi industrializzati, è un vero e proprio controsenso. Siamo lontanissimi dagli obiettivi di Lisbona che prevedono il 60 per cento di tasso di attività femminile”. “Scoraggiare il lavoro delle donne – conclude Nardini – significa danneggiare l’economia e danneggiare l’intera società”.
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