Il trumpismo non è morto

L’America è una polifonia di visioni e di identità. Quella dei discendenti degli schiavi, che denunciano gli abusi d’una società spesso anche razzista. Il trumpismo è radicato nella società americana e ramificato, con varianti nazionaliste, qua e là nel mondo. C’è anche una variante dei sovranisti europei e di quelli italiani. Un fenomeno globale.

Quella della destra religiosa, che si è accontentata di un Trump tutt’altro che santo pur di salvare i propri valori (e che vede in Biden un comunista e in Bergoglio un Papa arreso a gay e abortisti) come racconta Rod Dreher nell’intervista rilasciata a Giuseppe Sarcina per La Lettura, nella quale espone le ragioni di quei cristiani conservatori, promotori del movimento antibortita pro life, che vogliono contare di più e denunciano l’egemonia culturale della sinistra e del movimento Lgbt .

Quella liberal, che spera ma non si fida della piega che potranno prendere gli eventi, come emerge in “Il trumpismo non è morto. Cerca altre voci” di Viviana Mazza, che raccoglie opinioni sul futuro degli Usa da scrittori: Mlinko, Ciment, Leavitt, Shteyngart, Solnit Taddeo.

E poi quella della nuova realtà, poco nota, delle tribù dei nativi, dei Navajo, che sono state determinanti in Arizona per la vittoria di Joe Biden. Marco Bruna in“Le tribù hanno salvato gli Usa. Ora Biden salvi le tribù”, su La Lettura,  pubblica l’intervista a Leslie Marmon Silko che rappresenta una delle grandi voci della letteratura nativa, vive in Arizona. Racconta come si vive laggiù. In Italia è ripubblicato il suo romanzo fondamentale “Cerimonia” del 1977.

Giulia Ziino in “Quella nazione che alza la testa” ricorda le persone che hanno «aperto il mondo del possibile». Eroi, ribelli. Cam­pioni dello sport, della musi­ca, delle grandi battaglie civili, dei piccoli gesti di ogni giorno. Kwame Alexander (scrittore che ama le sfide: ha conquistato i lettori ra­gazzini raccontando, in versi, di basket, razzismo, adolescenza) li chiama Invinci­bili.

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