Tramonta la globalizzazione
Paolo Bricco in “Il colpo di grazia alla globalizzazione”, su Il Sole, descrive cosa può succedere per la globalizzazione come l’abbiamo fin qui conosciuta, se l’asse dell’economia russa si sposterà, cosa assai probabile, verso la Cina. Pone problemi che vanno al di là del problema energetico e del gas che la Russia fornisce all’Europa. L’articolo si sofferma su riflessioni che riguardano il futuro dell’economia europea e italiana, il benesere o l’austerità per milioni di cittadini. Si legge…
La guerra in Ucraina è un potente focolaio di instabilità geopolitica ed energetica, tecnomanifatturiera e finanziaria. La pandemia ha già provocato nel codice genetico della globalizzazione alcune mutazioni che, ora, potrebbero sperimentare evoluzioni più marcate e meno reversibili. Negli ultimi due anni le catene globali del valore si sono sfilacciate e hanno perso compattezza. Le reti di fornitura sono diventate più corte, meno efficienti, più onerose. I mercati finali hanno avuto una ricalibratura regionale. Nella gerarchia geoeconomica si è verificata l’avanzata di una Cina che – se ha bisogno di stabilità per sviluppare il mercato interno e per raggiungere il suo breakeven naturale al 7% del Pil – ha comunque una strutturale posizione di ascesa nelle vecchie Global Value Chains e ha, soprattutto, la capacità di modellarne di nuove. La guerra ha obbligato Volkswagen e Bmw a interrompere i cicli di produzione e di fornitura in Ucraina, dove realizzavano i cablaggi di diversi modelli. Con la guerra potrebbe acuirsi la crisi dei chip, sorta in piena pandemia. La metà del neon mondiale per semiconduttori, il gas usato per i laser che “scrivono” sui wafer di silicio, arriva da Ucraina e Russia. Ma non è solo un tema di auto e di microprocessori. In ogni settore le imprese della manifattura europea e italiana seguono il dettato del trauma del conflitto.
Ma le loro scelte di oggi si inseriscono in un riassetto delle basi produttive che, da tempo, ha incluso l’opzione del re-shoring. La quale è stata più astratta che concreta: per la Fondazione Ergo, che ha pubblicato il saggio curato da Rachele Sessa “Perché le fabbriche fanno bene all’Italia” (Rubettino), dal 2014 solo 40 imprese italiane hanno compiuto un vero re-shoring, 200 considerando tutta l’Europa. Il problema, dunque, è rappresentato dalle strategie generali delle imprese europee ed italiane. Negli ultimi tre anni, secondo un lavoro citato nel saggio “L’Italia nelle catene globali del valore” curato da Giorgia Giovannetti e da Enrico Marvasi (Rubettino), la maggioranza delle imprese non ha ridotto e non intende ridurre né la propria presenza internazionale (62% delle imprese con impianti all’estero) né il numero di fornitori esteri (78% delle imprese con fornitori esteri). I costi generali dell’energia e delle commodity, dei semilavorati e della logistica sembrano variabili impazzite. Il problema è che cosa faranno adesso queste aziende. Soprattutto se ci saranno effetti prorompenti in grado di trasformare in punti di rottura alcune linee che si intravvedono nei loro comportamenti. Secondo l’analisi di Met, compiuta su un panel di 24mila imprese da Emanuele e Raffaele Brancati, esiste un primo slittamento fra quelle più internazionalizzate. Nel 2019, prima della pandemia, l’11,2% delle aziende era pienamente inserito nelle catene globali del valore. A gennaio di quest’anno – poco prima della crisi ucraina – la quota è scesa al 9,4 per cento. (…) per proseguire aprire l’allegato.
Larry Fink – presidente di BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo con sede a New York – ha inviato una lettera agli azionisti della quale La Stampa pubblica uno stralcio “La guerra cancella la globalizzazione” (vedi allegato) in cui si legge….
Il mondo sta subendo una trasformazione: la brutale aggressione russa all’Ucraina ha sconvolto l’ordine mondiale che sussisteva dalla fine della Guerra fredda (…) E le implicazioni di questa guerra non si limitano all’Europa orientale. Vanno a stratificarsi su una pandemia che ha già inciso in profondità sui trend politici, economici e sociali. Il suo impatto avrà ripercussioni per i decenni, con modalità che non siamo in grado di prevedere. All’inizio degli anni Novanta la Russia fu accolta nel sistema finanziario globale e ottenne accesso ai mercati finanziari globali. Con il passare del tempo, è diventata interconnessa con tutto il mondo, profondamente collegata all’Europa occidentale. Il mondo ha tratto beneficio dai dividendi della pace globale e dall’espansione della globalizzazione. L’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni. Avevamo già visto in che modo due anni di pandemia avessero affaticato i rapporti tra nazioni, aziende e persone, lasciando molte comunità isolate. (…)
L’aggressione all’Ucraina da parte della Russia e la conseguente estromissione di quest’ultima dall’economia globale sta per sollecitare le aziende e i governi di tutto il mondo a rivalutare le loro dipendenze. Se sotto i riflettori c’è la dipendenza dall’energia russa, le aziende e i governi cercheranno anche di studiare in maniera più estesa possibile le loro dipendenze da altre nazioni. Questo potrebbe spingere le aziende a riportare indietro, sul territorio nazionale o comunque più vicino, molte delle loro operazioni. Anche prima dello scoppio della guerra, gli effetti economici della pandemia – compreso lo spostamento nella domanda dei consumatori dai servizi agli articoli per la casa, la penuria di manodopera e i rallentamenti nella catena dei rifornimenti – hanno portato l’inflazione negli Stati Uniti ai livelli più alti degli ultimi quarant’anni. In tutta l’Unione europea, nel Canada e nel Regno Unito, l’inflazione supera il 5 per cento. I salari non sono stati al passo e i consumatori devono fare i conti con salari reali più bassi, bollette sempre più alte e prezzi in forte aumento. Le banche centrali stanno soppesando decisioni difficili riguardo al ritmo di aumento dei tassi: devono scegliere se vivere con un’inflazione più alta o se rallentare l’attività economica e l’occupazione per abbassare l’inflazione. (…)
A mano a mano che le aziende ricalibrano le loro catene globali di approvvigionamento e gli alleati occidentali riducono la loro dipendenza dalle materie prime russe, il settore energetico subirà un impatto significativo. Già quest’anno vediamo che il prezzo del greggio ha superato i cento dollari al barile per la prima volta dal 2014. Di conseguenza, la sicurezza energetica si unisce alla transizione energetica come priorità assoluta globale. La transizione energetica potrà funzionare soltanto se sarà equa e giusta. (…) per il testo completo aprire l’allegato
Nella storia nulla è lineare. Quanto si potrebbe determinare dopo la tremenda e tragica guerra nel cuore dell’Europa, se non si trascinerà per lungo tempo, sarà ancora più influenzato dal ruolo mondiale della Cina soprattutto per il controllo che già esercita sulle terre rare fra Asia e Africa, ove abbondano le materie prime indispensabili all’era digitale e della transizione energetica. Anche per questo prende corpo – almeno negli scenari descritti dai politologi e futurologhi – l’ipotesi del decoupling, lo sdoppiamento delle catene globali del valore. Una a controllo occidentale. L’altra a controllo cinese. E nel mondo cambierebbe davvero molto per la globalizzazione, per le materie prime, l’energia e le terre rare, per la rilocalizzazioen della manifattura e del commercio nel mondo.
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