La truffa del populismo
La guerra contro la realtà e il mondo dove i fatti non contano più
Un’idea vuota in cui far confluire segmenti di società diverse. Persone unite non dalle idee ma dagli umori. “Questa non è propaganda” (Bompiani) di Peter Pomerantsev è un libro formidabile che mostra come la nuova politica sia un prodotto di laboratorio. Il sito linkiesta.it pubblica questa pagina del libro.
… «Tutta la politica riguarda adesso la creazione di un’identità»: era questa la tesi sviluppata da uno spin doctor mentre eravamo seduti in un bar di Città del Messico, la terrazza tanto ombreggiata dal denso fogliame che sotto di esso pareva notte, mentre il cielo sopra di noi era di un blu curaçao. Mi spiegò che gli antichi concetti di classe e ideologia erano defun ti. Adesso, quando creava una campagna, doveva prendere interessi distinti e separati e unirli sotto un nuovo concetto di “popolo”.
Lo spin doctor indossava una camicia a righine, i capelli impomatati all’indietro: sembrava un po’ uno yuppie. «Il populismo non è un’ideologia, è una strategia», affermò, invocando due studiosi dell’Università dell’Essex, Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che avevano coniato per primi l’idea del “populismo come strategia”, anche se il loro intento era di promuovere un nuovo tipo di socialismo
Rimasi sorpreso dalla scelta dei suoi riferimenti teorici prediletti: non dava affatto l’impressione di essere un socialista. Mi spiegò che le sue preferenze andavano alla sinistra, ma che lavorava con chiunque lo aiutasse a pagare l’affitto. La natura dei social media incoraggia il “populismo come strategia”. Proviamo a guardare le cose dal punto di vista dello spin doctor. Gli utenti dei social media si raggruppano in base a interessi profondamente diversi: diritti degli animali e ospedali, armi e giardinaggio, immigrazione, genitorialità e arte moderna. Alcune di queste cose possono essere apertamente politiche, mentre altre sono private. Il tuo obiettivo consiste nell’intercettare il voto di queste persone in modi completamente diversi, legando il tuo candidato a ciò cui tengono di più. Questa specie di micro-targeting, dove un gruppo di elettori non deve necessariamente essere a conoscenza degli altri, richiede una grande identità vuota che unisca tutti questi gruppi differenti, qualcosa di abbastanza vasto perché tali elettori possano sentirsene partecipi – una categoria come “il popolo” o “i molti”.
Il populismo così creato non è un segno dell’unione del “popolo” in una grande ondata di concordia, ma una conseguenza del fatto che “il popolo” è più frammentato che mai, ed è discutibile che si possa parlare di una vera e propria “nazione”. Quando la gente ha meno cose in comune di prima, è necessario immaginare una nuova versione del “popolo”. All’interno di tale logica, i fatti diventano secondari. Dopotutto, non si sta tentando di vincere grazie al peso delle prove un dibattito su concetti ideologici in una sfera pubblica: lo scopo è sigillare il proprio pubblico dietro un muro verbale. È l’opposto del “centrismo”, in cui bisogna riunire tutti sotto un unico tetto, appianando le differenze. Qui non è neppure necessario che i diversi gruppi si incontrino. Anzi, sarebbe meglio se non lo facessero: cosa accadrebbe se uno percepisse l’altro come un nemico? Per suggellare questa identità improvvisata è necessario un nemico: “il non-popolo”. Meglio mantenerlo il più astratto possibile in modo che tutti possano inventarsi la propria versione di ciò che significa: “La classe dirigente” può andare, o le “élite”, la “palude”.* Lo spin doctor messicano ammise che la faccenda, purtroppo, poteva diventare sgradevole.
Pensiamo agli Stati Uniti. La campagna presidenziale di Trump si rivolse ai fautori del libero mercato, della difesa dell’identità americana, ai nemici delle élite, alla classe operaia – senza considerare la miriade di micro – gruppi sui social media. Certe pubblicità sui social media non menzionavano neppure Donald Trump, evitando di mostrare la stella del reality-show e concentrandosi invece su messaggi sdolcinati che non avevano nulla a che spartire con il suo vetriolo. Ma, a differenza dei rivali del partito di Hillary Clinton, lo staff della sua campagna riuscì poi a unire tutti questi gruppi diversi in una rabbia generale nei confronti della “palude” e degli stranieri. Oppure si può prendere in considerazione l’Italia, dove il Movimento 5 Stelle partì come una serie di blog che davano voce a rimostranze completamente diverse destinate a diversi gruppi, spaziando dall’ecologia all’immigrazione, dalle buche nelle strade alla politica estera. La colpa di tutto ciò veniva attribuita all’“establishment” e il messaggio era veicolato dalla travolgente energia del loro anarchico leader riccioluto e imprecante, il comico prestato alla politica Beppe Grillo.
Il testo è tratto da “Questa non è propaganda. Avventure nella guerra contro la realtà”, di Peter Pomerantsev, Bompiani, 2020
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