Il quorum e il quid
Il quorum e il quid: il risultati del referendum del 8-9-giugno hanno fatto capire – anche tra le file dei promotori della Cgil – che l’obiettivo del 50% più 1 era molto difficile da raggiungere, in primo luogo perché quattro dei quesiti posti riguardavano la vita lavorativa di una minoranza dei cittadini, i lavoratori dipendenti rappresentano solo UN TERZO dei cittadini aventi diritto al voto. Inoltre parte dei quesiti posti erano di non facile valutazione per esprimersi con un Sì o un No. Molti sono stati gli articoli di commento sia sul quorum, suggerendo modifiche che però richiedono un lungo iter trattandosi di una norma costituzionale (art.75), sia sul quid il contenuto dei quesiti. Ne abbiamo scelto solamente tre, oltre al documento dell’Assemblea Generale della Cgil del 17-18 giugno.
In “Quegli errori da non ripetere” Tito Boeri, La Repubblica 10-6-25, riflette sull’esercizio della democrazia che comporta fare un buon uso dello strumento referendario. E porre quesiti che siano di interesse generale per tutti i cittadini chiamati al voto. Così scrive: << Per favore non chiamate l’astensione di questi giorni ignavia democratica. L’esercizio della democrazia comporta fare un buon uso dello strumento referendario. Questo significa porre quesiti agli elettori che siano di interesse generale e a cui sia possibile dare una risposta anche senza avere competenze specifiche. Il confronto pubblico su questi temi può diventare un’occasione di crescita per tutti. Ad esempio, un referendum solo sulla cittadinanza, al di là dell’esito del voto, avrebbe potuto contribuire a creare consapevolezza sullo spopolamento in atto nel nostro Paese e ridurre la polarizzazione degli elettori su posizioni estreme in tema di immigrazione.

I quesiti che sono stati posti domenica 8 e lunedì 9 giugno agli elettori, con l’eccezione di quello sulla cittadinanza, non hanno certo le caratteristiche di cui sopra. Pongono una serie di quesiti incomprensibili ai non addetti ai lavori, non riguardano né una maggioranza di cittadini né temi al centro delle attenzioni degli elettori e la campagna di chi li ha proposti ha meticolosamente evitato di raccogliere e trasmettere ai votanti dati oggettivi su cui formarsi un’opinione.
Partiamo dai quesiti posti nei primi quattro referendum. Constano di ben 641 parole per 2.679 caratteri, quanto un articolo di giornale da leggere nel segreto dell’urna, con termini esoterici e riferimenti a 9 leggi, 8 commi e 6 decreti diversi. Anche i titoli delle schede sono di scarso aiuto: “Contratto a tutele crescenti — Abrogazione disciplina contratti illegittimi”; “Piccole imprese — Licenziamenti e relativa indennità: abrogazione parziale”; “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”; “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici: abrogazione”.
Ben diverso il caso del referendum sulla cittadinanza, il cui oggetto è desumibile dal titolo: “Cittadinanza italiana: dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”.
I quesiti sui licenziamenti riguardano i soli lavoratori dipendenti del settore privato, un terzo degli elettori: 17 milioni di persone rispetto ai 51milioni chiamati al voto. Non sarebbe un problema se la questione fosse al centro delle preoccupazioni degli elettori o un’emergenza sociale su cui richiamare la loro attenzione. Basta consultare Google trends per accorgersi che il termine “licenziamento” è molto meno saliente di cinque anni fa, è ricercato dieci volte meno che “immigrazione”, venti volte di meno di “cittadinanza”.
I licenziamenti non sono al centro delle attenzioni dell’opinione pubblica per il semplice fatto che sono al minimo storico. Nel 2024 ci sono stati 42 licenziamenti ogni 1.000 lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, il livello più basso degli ultimi 20 anni, il 40% in meno di quando (in condizioni congiunturali simili) è entrata in vigore la legge che il referendum si proponeva di abolire. Le controversie in ambito di lavoro sono da allora diminuite del 65%, i procedimenti iniziati per motivi di licenziamento si sono ridotti del 41%. Anche il peso percentuale dei contratti a tempo determinato sul lavoro alle dipendenze (oggetto del terzo referendum) è fortemente calato negli ultimi anni e sono aumentate le conversioni di questi lavori in contratti a tempo indeterminato.
Ciò che è oggi al centro delle preoccupazioni delle famiglie è la perdita del potere d’acquisto dei salari. Dal 2014 a oggi la percentuale di lavoratori con retribuzioni talmente basse da non consentire loro di evitare la povertà assoluta, i cosiddetti working poor, è aumentata dal 4,9% al 7,6%. Questo è il segno evidente che il lavoro non basta per garantirsi un’esistenza dignitosa. Perché allora non sottoporre a referendum semmai la legge che priva le persone in età lavorativa di assistenza sociale, anziché il Jobs Act? La verità è che tra i proponenti dei quesiti sui licenziamenti sono ben pochi quelli che si preoccupano di studiare e ancor meno di raccogliere dati oggettivi. Come mi ha candidamente confessato un lettore che mi aveva rimproverato per avere sostenuto che i referendum sul lavoro sono mal posti e antistorici, “non sempre sono importanti i dati”.>>.
Diversa è la valutazione di Nunzia Penelope (vedi allegato) che su http://www.ildiariodellavoro.it commenta l’Assemblea della Cgil svoltasi il 18-19 Giugno conclusasi con un documento finale (vedi allegato) in cui si legge « La bocciatura da parte della Corte costituzionale del quesito sull’autonomia differenziata (una legge che continueremo a contrastare perché, seppur pesantemente sanzionata dalla Consulta, rappresenta ancora un rischio per l’unità e la coesione sociale del Paese) ha privato la campagna di un elemento trainante molto forte. In ogni caso, l’obiettivo che ci eravamo posti non lo abbiamo raggiunto: il mancato quorum non ci ha consentito di abrogare le leggi che hanno aumentato la ricattabilità, la precarietà e reso più insicuro il lavoro. Le ragioni che hanno spinto la maggioranza degli elettori ad astenersi sono diverse. Innanzitutto, l’astensionismo cronico, principale sintomo della crisi profonda in cui da troppo tempo versa la nostra democrazia. Si sta evidentemente perdendo fiducia nelle Istituzioni democratiche, considerate incapaci di migliorare le condizioni materiali di vita e di lavoro delle persone. Nemmeno uno strumento di democrazia diretta come il referendum, che consente di modificare direttamente le leggi senza delegare nessuno, è stato in grado di invertire questa tendenza, a cominciare dalle aree sociali e geografiche che vivono di più il disagio e l’esclusione dai diritti sociali e di cittadinanza.»
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penso da tempo che sia ora di chiudere la questione della rappresentanza e della validità dei contratti collettivi: diamo aplicazione all’art 39 della Costituzione, basta estendere ai settori privati quanto già attuato in quelli pubblici. C’è qualche difficoltà in più nella misurazione della rappresentanza (computo degli/delle iscritti/e), in molti settori si viaggia ancora con le RSA nominate, ma ce la si può fare. Anche la questione salariale non la si risolve con il salario minimo per legge, molto meglio avere un ed uno solo ccnl con applicazione obbligatoria per i settori coinvolti dall’Ato Adige a Lampedusa. Giorgia Meloni aveva detto di non essere favorevole al salario minimo per legge, ed invece favorevole ad un potenziamento della contrattazione collettiva? sfidiamola su questo terreno