I nodi irrisolti dell’Ilva – P.Bricco – intesa tra avvocati –
Una cosa buona e una cosa cattiva. L’accordo siglato ieri è una moneta a due facce. Comunque lo si guardi. Su ogni questione. Nulla di strategico è risolto. Molto è ancora da definire.
La struttura giuridica. Dall’estate degli arresti dei Riva e dei sequestri dell’Ilva, correva l’anno 2012, questa è una storia di manette e di aule di tribunali, di studi legali e di uffici di commercialisti, di sottomissione dei politici ai procuratori e di paura degli imprenditori di finire in galera. Per questo, la struttura giuridica raggiunta è fondamentale. La cosa buona è che, ieri, non ha deciso un giudice. Almeno per ora, abbiamo evitato la scena indecorosa di una politica e di una imprenditoria italiane che abdicano al loro ruolo e finiscono, volenti o nolenti, per lasciare il pallino in mano ad una magistratura che, di solito, nulla sa di questioni industriali. La cosa cattiva è che, in realtà, con questo accordo si è preso tempo. Non a caso, è stata finora tutta una storia di avvocati. Il gioco vero inizia adesso. Le trattative dureranno fino a novembre.
La posizione di Arcelor Mittal
Arcelor Mittal è uno dei gruppi siderurgici più grandi e reputati al mondo. Nel business, difficile trovare un acciaiere o un manager che non parlino con considerazione dei Mittal e della loro prima linea. La loro posizione è tutta da decifrare. Poco tempo e si saprà. La cosa buona è che, adesso, Arcelor Mittal potrà decidere se rimanere o no. Valutando la domanda di mercato europea. In uno scenario ogni giorno più difficile per gli effetti globali del corona virus. Facendo bene i conti: con una finanza di impresa che continua, a Taranto, a bruciare fra i 2 e i 2,5 milioni di euro al giorno. Verificando la convenienza – per sé – della proposta del Governo. La cosa cattiva è il doppio segnale: la scomparsa dall’accordo dello scudo penale (la strillatissima ragione formale della rescissione del contratto) e il ritiro dall’Italia dei manager stranieri.
Il nodo dell’equity
L’equity è il cuore della questione. Perché è nella struttura del capitale che si definirà chi avrà il controllo operativo della società, chi deterrà una quota di minoranza, chi deciderà di convertire una parte o l’intero ammontare della montagna di debiti. La cosa buona è il chiarimento di fondo sulla struttura del capitale: se non entrerà lo Stato, Arcelor Mittal uscirà a fine anno pagando mezzo miliardo di euro. Questo evita il Vietnam giudiziario, con cause miliardarie che si trascinerebbero per anni. Fissa una modalità di uscita e stabilisce un prezzo. Inoltre, da qui a novembre – se il Governo non volesse diventare socio di minoranza di Arcelor Mittal o se Arcelor Mittal decidesse di fare saltare il banco con una forzatura per la quale avrebbe assolutamente il physique du rôle – l’Esecutivo potrà studiare un Piano B. Nell’auspicio che non sia la ennesima riproposizione di una pura statalizzazione dell’Ilva. La cosa cattiva è che, per ora, non è stato ancora identificato un advisor per fare le perizie per i concambi. E, dunque, siamo ancora al tempo zero per Arcelor Mittal, che di sicuro non metterà più soldi buoni su soldi cattivi, per il Governo, che deve ancora scegliere il veicolo societario per la quota di minoranza, e per le banche, per cui l’Ilva è sempre stato un problema, ancora più grande con la recessione che avanza.
Il nodo dell’occupazione
L’argomento più delicato. Il vero scoglio. Nessuno, finora, ne ha parlato con i sindacati. La cosa buona è che, sul piano teorico, è stato raggiunto da Arcelor Mittal e dal Governo un accordo per garantire, nella sostanza, la piena occupazione. Insomma, il migliore dei mondi possibili. La cosa cattiva è che, da subito, Arcelor Mittal ha sostenuto che, per trovare un equilibrio in condizioni di mercato peraltro meno deteriorate delle attuali, alla fabbrica servissero 5mila dipendenti in meno. Una nota: i forni elettrici nello stabilimento farebbero abbassare la marginalità industriale complessiva di Taranto, richiedendo meno personale.
Il quadro politico
Non esiste solo il problema della costruzione di un nuovo rapporto con Arcelor Mittal, azionista di maggioranza di una società posseduta per una quota considerevole dallo Stato. E, in caso di uscita dei franco-indiani, non esiste soltanto la questione della definizione di un Piano B, con il rischio di trasformare l’Ilva nell’ennesimo esercizio degli orfani dell’Iri, con qualche imprenditore privato – italiano o straniero – coinvolto nella conduzione dell’impresa, pagata però con i soldi pubblici. La cosa buona è che esiste una linea razionale sull’intera vicenda che, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze alla Commissione di Bruxelles, ha costruito le condizioni perché non saltasse tutto per aria. La cosa cattiva è che ha ripreso corpo il partito che vorrebbe finire con questa storia, serrare i cancelli, spegnere gli altoforni. Alcuni, come il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, sembrano animati da buona fede civica diventata fastidio per l’inerzia. Altri, come gli esponenti dei Cinque Stelle, sono coerenti con l’idea che nulla si possa e nulla si debba fare per salvare Taranto. Costi quel che costi.
Paolo Bricco Il Sole 5-3-2020