L’Ottocento, il Novecento e il Duemila
Nel Novecento gli economisti credevano che fra sindacalizzazione e andamento delle retribuzioni ci dovesse essere una chiara correlazione: più i sindacati sono forti per l’adesione di molti soci, si diceva, più sarà forte il loro potere contrattuale e più alte saranno di conseguenza le retribuzioni. Così inizia l’articolo pubblicato sul sito il9marzo e prosegue…
<< Il Novecento però deve essere veramente finito, almeno in Italia: perché il nostro paese dichiara tassi di sindacalizzazione doppi o tripli rispetto ad altri paesi simili come Francia, Spagna e Germania, eppure da quelle parti i salari sono cresciuti mentre da noi sono fermi ai livelli della fine del secolo scorso. La correlazione non c’è più. In Italia gli iscritti sono tanti e le retribuzioni calano in termini reali, mentre altrove magari gli iscritti calano o non crescono, eppure i sindacati ottengono miglioramenti salariali in termini sia nominali che reali.
Come è possibile? Dove sta l’errore?
Alcune recente indagini sulla sindacalizzazione danno, se non una spiegazione definitiva, un suggerimento: forse i conti non tornano perché non è esatto il dato della sindacalizzazione italiana sopra al 30%.
Se infatti i dati dell’Ocse, quelli normalmente citati, si basano in primo luogo sulle dichiarazioni dei sindacati, cioè fanno affidamento sulle dichiarazioni dell’oste quanto alla qualità del vino, altre ricerche più recenti hanno guardato la questione dall’altro punto di vista, cioè quello delle persone che si dichiarano iscritte ad un sindacato rispondendo a questa domanda nei sondaggi.
Ad esempio, un clic qui, Una di queste indagini, quella citata da Paolo Santini sul sito www.lavoce.info, ha usato i dati dei sondaggi che, condotti per altri motivi, registrano la dichiarazione della persona intervistata sull’appartenenza ad un sindacato (ad esempio gli studi dell’Istituto Cattaneo sui flussi elettorali). Ed il risultato che emerge costantemente è che la percentuale di chi dichiara l’iscrizione ad un sindacato è inferiore alla percentuale dichiarata dalle organizzazioni. Una differenza che era poco rilevante fino alla fine del Novecento, mentre dall’inizio del Duemila è andata accentuandosi: le ultime rilevazioni registravano un tasso che fatica ad arrivare al 20 per cento.
Un’altra indagine, “Sindacati in crisi in un’economia che cambia” condotta da Paolo Agnolin, Massimo Anelli, Italo Colantone e Piero Stanig, è quella raccontata nel primo numero della rivista “Eco” (vedi allegato) e che cerca di ottenere dati articolati per regioni e settori produttivi: in questo caso sono stati condotti sondaggi specifici interrogando gli individui, sulla base di questi dati è stata stimata la probabilità di sindacalizzazione per tipologie di lavoro svolto, poi sulla base di queste stime è stato calcolato l’indice probabile di sindacalizzazione per regioni e per settori: la percentuale più alta su base regionale è il 24,7 del Trentino-Alto Adige/Südtirol, quella su base settoriale è il 26,8 dell’istruzione. Neppure nei punti più alti, i dati ottenuti interrogando le persone si avvicinano al dato dichiarato dalle organizzazioni.
E allora? O i sondaggi sbagliano, ma qui il discorso si fa tecnico e va affidato agli specialisti, oppure bisogna trovare una spiegazione a questa notevole differenza, emersa in una ricerca e ribadita con più forza nella seconda. E non si può neppure dare al colpa ai sindacati dei pensionati e alle iscrizioni ad insaputa degli iscritti, perché le ricerche hanno tenuto conto solo dei lavoratori attivi.
Secondo noi, la differenza sta nel Novecento e nel Duemila.
Nel Novecento l’iscrizione ai sindacati aveva motivazioni che potevano essere ideali o pratiche, ma erano forti: ci si iscriveva sapendo di fare una scelta di campo.
Dal Duemila, e solo in Italia, l’iscrizione al sindacato diventa (per molti) un’adesione meramente strumentale: come la tessera del supermercato che dà diritto agli sconti, ma che non produce identità. Per molte persone oggi dire “sono iscritto alla Cisl” ha più o meno lo stesso significato di dire “ho la tessera Fidaty dell’Esselunga”. Per questo, interrogato in un sondaggio sull’appartenenza o meno ad un’organizzazione sindacale, chi si è iscritto per il Caf o per qualche conteggio magari non lo dice o non se lo ricorda, o non ricorda a quale sindacato si è iscritto. Perché non è una cosa importante, come fare la spesa in un posto o in un altro.
Può darsi, dunque, che il tasso di sindacalizzazione sia effettivamente sopra al 30 per cento, ma il numero di chi vuole essere rappresentato è più vicino al 10 per cento. E dicono la verità sia i numeri dichiarati dalle organizzazioni che le persone che rispondono ai sondaggi.
La conclusione, allora, è che dobbiamo scegliere dove andare: tornare al Novecento non si può, e tanto meno puntare a soluzioni ottocentesche come la partecipazione agli utili d’impresa, venduta da Via Po 21 come se fosse il nuovo che avanza. Ma non si può neanche restare nel Duemila italiano, con sindacati sempre più pallidi e gonfiati da adesioni prive di motivazioni. Meglio cercare di andare verso il Duemila che stanno vivendo altri sindacati nel mondo che sono capaci di organizzazione, di conflitto e di contrattazione nel nuovo secolo. E i loro risultati si vedono nella busta paga, non nelle parole al vento di anziani dirigenti che sbraitano dal palco del Primo maggio. Come se nel Duemila il lavoro lo si difendesse così.>> https://www.il9marzo.it/?p=9868
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