UN PROGRAMMA PER TORINO – G.Berta e B.Manghi – politica & democrazia – 17/6/10

Dopo la sconfitta elettorale di Mercedes Bresso, del centro-sinistra alle elezioni regionali, è iniziato nel Pd Torinese la corsa al dopo Chiamparino ( elezioni comunali nel 2011). Fuori tempo ed in malo modo. Non con un dibattito nel partito aperto a tutti gli iscritti e simpatizzanti ma per comitatini o sottocomitati elettorali com’è diventata la vita dei grandi partiti. Ci sono state anche autocandidature di esponenti con un lungo currilulum di partito. A fatto seguito l’iniziativa di Sergio Chiamparino con un’intervista con la quale ha proposto la formazione di una lista civica. Dopo alcuni giorni è seguita la lettera aperta di Giuseppe Berta e Bruno Manghi ( protagonista del conflitto con Benessia nella Fondazione SanpaoloIntesa)  che hanno replicato ……….. 

 

 “Caro Chiamparino, bene il metodo

ma il programma…”

 

GiUSEPPE BERTA e BRUNO MANGHI   Su La Repubblica del 13-6-10

 

È sbagliata pensare che il problema fondamentale di Torino siano le infrastrutture

Bisogna puntare di più sul sociale e a un rinnovato patto tra generazioni

 

Caro Direttore, la propo­sta di una lista per Torino che rispecchi una vasta coalizione di interessi urbani, proiettandosi al di là delle ap­partenenzedipartito, ci sembra, non da oggi, la migliore ipotesi per il governo della città. Oltre dieci anni fa, avevamo avanzato una provocazione in questo senso anche per l’amministra­zione regionale del Piemonte, convinti che lo schema del bipo­larismo non dovesse prevedere una trasposizione meccanica nella sfera locale. Prima che im­perasse la retorica del federali­smo, avevamo avuto modo di esprimerci a favore di forme di rappresentanza politica capaci di rispecchiare l’assetto e la composizione delle differenti realtà territoriali. Ciò allo scopo sia di ridurre il divario tra politi­ca e società sia di fare emergere le forze e le componenti indi­spensabii per lo sviluppo.

Dunque, non possiamo che concordare col sindaco Chiam­panno, quando sollecita a vara­re per le prossime amministrati­ve una lista più composita e am­pia di quella che si potrebbe co­struire in base alle logiche di par­tito.

Ma il nostro consenso si fer­ma al metodo, perché non ci convince invece il pro­gramma su cui questa coalizione urbana dovrebbe costituirsi, stando almeno alle prime anticipazioni.

Davvero si pensa che, oggi e nei prossimi anni, il problema fonda­mentale di Torino sia quello delle in­frastrutture di collegamento inter­nazionale?

Davvero si può credere che un nuovo ciclo di sviluppo pos­sa essere affidato alla speranza – per giunta incerta – di opere infrastrut­turali?

Quanto ci rende scettici di fronte a questa prospettiva non è soltanto l’estrema improbabilità dei finan­ziamenti necessari per avviare e so­stenere le infrastrutture, bensì la consapevolezza della loro modesta ricaduta sull’economia e la società.

Dovremmo ricordare tutti le aspettative che erano state alimen­tate in seguito all’apertura dell’alta velocità ferroviaria tra Torino e Mi­lano. Non è trascorso moltissimo tempo da quando sono stati presen­tati studi che parlavano di un effetto di crescita del PIL locale attorno al 2 per cento annuo.

Bene, ora che la linea è in funzio­ne da oltre sei mesi è facile riscontra­re, come stanno facendo le rileva­zioni statistiche, che l’utenza inte­ressata è di poche migliaia di perso­ne al giorno, le quali, certo, hanno potuto trarre giovamento dalla ridu­zione dei tempi di percorrenza, sen­za che questo si sia finora riflesso in un innalzamento dell’efficienza economica.

Continuiamo a credere, invece, che la priorità ai fini dello sviluppo economico e civile debba essere ac­cordato alle persone, prima che alle cose. Al capitale umano, alla sua for­mazione e alla sua qualità, se si vuo­le ricorrere al linguaggio degli eco­nomisti. E proprio su questo versan­te a Torino come in Italla, specie nel­l’attuale fase di crisi, c’è moltissimo da fare.

Un nuovo ciclo amministrativo della città dovrebbe fondarsi a parti­re da un rinnovato patto fra le gene­razioni. Un patto che riconosca i problemi specifici della popolazio­ne di ogni fascia di età e ne valorizzi nel grado maggiore possibile le atti­tudini e le potenzialìtà.

Mai come adesso il lavoro dei gio­vani è stato sacrificato. Le indagini sociali ci parlano dei nuovi lavorato­ri come soggetti mal pagati e con po­ca tutela. Siamo riusciti a realizzare l’assurdo di aumentare la flessibilità (condizione necessaria nel proces­so economico odierno) riducendola valorizzazione e il riconoscimento della qualità del lavoro. Abbiamo così lavoratori molto flessibili e poco retribuiti, anche quando risultino in possesso di buoni livelli di istruzio­ne. Si tratta di un paradosso che, ol­tre a penalizzare gravemente il lavo­ro giovanile e femminile, tarpa le ali alla ripresa di uno sviluppo robusto.

L’infanzia è destinata ad avere un crescente rilievo. Occorre tornare a riflettere sulla cura e l’attenzione che portiamo ai bambini, in specie se teniamo presente che le nostre aule scolastiche sono sempre più popolate dai figli degli immigrati. La politica della cittadinanza attiva parte di qui, dalla sollecitudine per i primi anni di vita e dalla creazione di un universo per i più giovani che sappia immetterli in un circuito di opportunità, personali e sociali. Senza trascurare che è nella fascia da 0 a 3 anni che si formano i primi livelli di diseguaglianza sociale, incidendo sullavoro delle donne.

Nella nostra realtà in particolare, la terza età è ormai sfociata nella quarta. Una lunga prospettiva di vi­ta è un indicatore essenziale di be­nessere. Dobbiamo sapere che, se in una prospettiva ventennale i “gran­di” vecchi sono la classe d’età della popolazione che può aumentare di più, ciò richiede, oltre che risorse, capacità di progettazione e di ge­stione sociale. Esige un scatto in avanti nelle strategie dell’assistenza delle famiglie, che vanno coadiuva­te nella definizione di un mix atto a garantire una buona qualità di so­pravvivenza.

Il patto tra le generazioni ci sem­bra il passo prioritario nella ricerca di una nuova coalizione urbana. Per avere successo, essa dovrà riuscire a coinvolgere persone che sono rap­presentative senza essere per que­sto note alle cronache, come è ovvio in un processo di avvicendamento. Il rischio che intravediamo nella proposta del sindaco è che essa si ri­volga ancora una volta a un establi­shment torinese ormai estenuato, come dimostrano le recenti vicende in cui ha fornito ben modesta prova di sé.

Diciamolo chiaro: la chiamata al­la partecipazione al progetto di crea­re una nuova stagione amministra­tiva non può essere rivolta in primis a chi tiene banco da decenni, aven­do ormai largamente varcato i pro­pri limiti di competenza, oltre che di età.

Facciamo invece crescere nuovi protagonisti, in grado di prendere su di sé le responsabilità amministrati­ve senza tutele paternalistiche.

Il municipio di Torino non ha bi­sogno di un sindaco-demiurgo, ma di una personalità non importa se uscita dalla politica organizzata o dal mondo delle competenze e delle professioni. che possegga in primo luogo la dote di suscitare energie al di fuori dell’ambito istituzionale e di partito. Che sappia persuadere, con gli atti ancora più che con le parole. Che sappia dialogare col nucleo del­la città come col suo hinterland.

 

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