TRE DOMANDE SULLA STRAGE IN EGITTO – Il Foglio – globalmondo 4/1/2011

Tre domande sulla strage di Capodanno ad Alessandria d’Egitto. Venivano da fuori? Perché i cristiani? E l’apparato di sicurezza? La scelta di colpire i cristiani in Egitto risponde a una strategia chiara dei takfir – letteralmente “gli scomunicatori”, coloro che dichiarano chi può restare vivo o chi deve morire in accordo alla parola di Allah – dopo il rovescio di fortune subito nel 2007 e nel 2008 in Iraq contro gli americani.

 

Agli occhi degli estremisti, è fin troppo ovvio che negli ultimi due anni hanno perso la capacità di occupare le prime pagine dei giornali, di attirare reclute fresche, di incoraggiare i ricchi finanziatori della causa nei regni sunniti del Golfo e di apparire una minaccia solida come durante l’età dell’oro di Abu Musab al Zarqawi, tra il 2004 e il 2006, quando le notizie sulle decapitazioni di ostaggi occidentali monopolizzavano l’attenzione del mondo. A Baghdad i takfir possono far saltare – e lo hanno fatto – uno o due ministeri con un attentato soltanto, e ammazzare assieme un centinaio di civili sciiti, ma la notizia resta confinata ai fatti locali, beghe mediorientali interessanti soltanto per gli specialisti.

Con i cristiani no. Loro sono una minoranza vulnerabile, a portata di mano, e che sortisce l’effetto magico di restituire tutta l’attenzione perduta. La morte di 21 iracheni per una bomba non avrebbe occupato le prime pagine dei giornali come ha fatto la morte dei 21 cristiani egiziani. Ogni colpo a un cristiano in medio oriente risuona subito con eco fragorosa anche in occidente. Minimo sforzo e massimo risultato: e i takfir, che non investono un volontario suicida e cento chilogrammi d’esplosivo per un attacco a caso, lo sanno benissimo. Per i cristiani esposti è cominciata una campagna di sofferenza.

Poche ore dopo l’attacco di Capodanno alla chiesa dei Due Santi di Alessandria, in cui sono morte 21 persone, il presidente egiziano Hosni Mubarak è apparso in televisione. La strage contro i cristiani copti, ha detto sicuro alla nazione, è opera di “elementi stranieri” e il governo “taglierà le mani” ai terroristi. Il punto su cui tutti i servizi di sicurezza del mondo si stanno scervellando è proprio questo: davvero al Qaida è riuscita a infiltrare una squadra in Egitto sotto il naso degli occhiutissimi servizi di sicurezza egiziani, abituati a contenere la minaccia qaidista fin da prima che nascesse – i fondatori del gruppo dovettero fuggire dall’Egitto per la brutalità della repressione governativa, per questo il gruppo nacque tra le montagne asiatiche dell’Hindu Kush. Oppure si tratta di una cellula locale, ispirata da messaggi e istruzioni via Internet, che segna la ricomparsa virulenta dei takfir nel più occidentalizzato dei paesi arabi?

C’è chi sostiene la soluzione ibrida. “Secondo i telegiornali si tratta proprio di al Qaida – spiega al Foglio Hala Mustafa, esperta di politica egiziana e direttore della rivista al Demoqratiya, legata al quotidiano governativo Al Ahram – ma al Qaida non può preparare un colpo simile senza appoggiarsi a cellule dormienti presenti nel paese. E’ troppo difficile poter credere che l’attacco arrivi da fuori: l’apparato di sicurezza nazionale è imponente, non è facile attraversare il confine. La sicurezza non ha preso abbastanza sul serio le minacce dei mesi passati”. La spiegazione , dice, sta nella progressiva radicalizzazione della società islamica: “E’ sempre più conservatrice, chiusa, i gruppi militanti trovano un terreno fertile”.

Non è d’accordo Amr Chobaki, analista del Centro di studi strategici e politici dell’Ahram ed esperto di gruppi terroristici. Per lui come per molti in Egitto l’attacco alla chiesa di Alessandria è stato interamente preparato da fuori, “il che non significa – spiega al Foglio – che nel paese non esista un problema tra cristiani e musulmani”. L’azione, spiega, è molto più sofisticata rispetto ad atti terroristici avvenuti in Egitto nel passato, per esempio negli anni Novanta, quando l’obiettivo erano i turisti stranieri. “Anche la scelta del momento, proprio dopo le minacce di al Qaida in Iraq, dimostra il collegamento straniero. Al Qaida può organizzare questo tipo di operazioni servendosi di tre o quattro persone, anche di una persona soltanto, come è successo l’anno scorso con il fallito attentato al volo Delta. E’ bastato un giovane nigeriano addestrato in Yemen”. La nuova strategia di al Qaida, dice, si basa sull’azione individuale. In paesi in cui lo stato è debole, come in Yemen, Somalia, Iraq, la rete terroristica è presente in modo strutturato. In nazioni in cui l’apparato di sicurezza nazionale è invece onnipresente, come in Marocco, Algeria ed Egitto, le operazioni sono portate a termine da una o due persone, non necessariamente locali. “Parliamo di cellule dormienti, composte al massimo da due o tre individui. Non penso che al Qaida in Egitto sia forte”.

In un paese in cui l’apparato di sicurezza è pervasivo e le leggi di emergenza sono in vigore dal 1981, anno in cui l’ex presidente Anwar el Sadat fu assassinato da estremisti islamici, l’attacco ai copti egiziani, annunciato da minacce da parte di al Qaida in Iraq, è senza dubbio un colpo al regime e al suo presidente che da decenni assicura di aver sconfitto e arginato i fondamentalisti. Le modalità dell’azione sono sicuramente nuove per l’Egitto e ricordano piuttosto le stragi irachene e libanesi.

Dopo l’attacco l’apparato di sicurezza del regime è finito sotto accusa. Non manca chi chiede con insistenza perché, con l’approssimarsi delle celebrazioni del Natale ortodosso e in seguito alle minacce in arrivo dall’Iraq, le chiese non fossero sotto stretto controllo.

In un paese in cui le leggi di emergenza sono periodicamente rinnovate, in cui i servizi di sicurezza sono robusti, “siamo sicuramente davanti a una contraddizione – spiega Chobaki – La polizia va fiera per l’ordine durante partite di calcio locali; ogni volta che c’è una manifestazione di 500 attivisti vengono mobilitati diecimila agenti, eppure i cristiani non sono protetti”.

4 gennaio 2011   Il Foglio

 
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