TESTIMONIANZA DI UN MEDICO A MISURATA – globalmondo – 26/6/11

Misurata, 11 maggio-13 giugno 2011. Testimonianza di un medico italiano. Misurata rimane ancora oggi dopo 4 mesi di guerra, una impresa non facile. Ci facciamo trasportare da un peschereccio libico prestato ad una fondazione no-profit che trasporta medici, giornalisti, molti libici che vivono all’estero e che tornano in Libia per vedere parenti e per portare aiuti di vario genere. Si impiegano venti ore di navigazione per arrivare al porto di Misurata, attracchiamo su una banchina completamente deserta. Siamo l’unica imbarcazione ad entrare e, guardandoci intorno un po’ preoccupati, aspettiamo il nostro contatto che a bordo di un toyota e con il fedele kalashnikov appoggiato al cambio, ci porta all’ospedale Hikma.

In questo ospedale sono stati trattati la maggior parte dei feriti durante il periodo dell’occupazione della città da parte delle truppe di Gheddafi. Ottanta giorni in cui gli abitanti di Misurata sono vissuti nel terrore per una occupazione militare crudele che non ha risparmiato vittime tra i civili e che non ha rispettato nessuna regola e nessuna pietà. Gli abitanti di Misurata hanno conosciuto e vogliono fare conoscere al mondo intero il vero volto del leader che ha guidato la Libia per 42 anni, con il silenzio complice di paesi che gli hanno riservato un rispetto immeritato solo per averne vantaggi politici ed economici. Ci raccontano tutto il loro odio e disprezzo, facendoci vedere foto e filmati che mostrano come in questi tre mesi di guerra l’unico obiettivo del regime sia stato quello di spazzare via dalla terra di Libia la “città ribelle”.

Noi siamo arrivati subito dopo la liberazione della città e ora la gente si sente più sicura e ha voglia di raccontare cosa sono stati per loro i tre mesi di occupazione, sanno che c’è il team italiano a Zarrok, la zona più sicura della città dove molte famiglie si sono rifugiate presso amici e parenti. Vengono qui e, fra un caffè italiano e qualche battuta sulla politica di casa nostra, rivivono con noi le memorie tragiche di questi mesi. Sono uomini che hanno i figli giovani al fronte e mentre ci mostrano le foto e i filmati dell’occupazione si commuovono, ci raccontano di parenti e amici che sono stati presi da casa e non vi hanno fatto più ritorno, forse sepolti in una fossa, forse in qualche prigione a Tripoli.

 

Raccontano di come è cominciato tutto, il 17 febbraio 2011 quando in tutte le più importanti città libiche come Bengasi, Misurata e Tripoli vennero organizzate le celebrazioni per ricordare tutte  le vittime civili uccise dai militari e per non dimenticare i 1200 prigionieri, per lo più oppositori del regime imprigionati e mai più restituiti alle famiglie, uccisi senza nessun grado giudizio, nel 1996. Le manifestazioni, in tutte le città, si sono concluse con i militari che hanno sparato sulla gente, innescando altre proteste e altri funerali, in alcune città come Bengasi e Misurata le proteste si sono trasformate in rivolta aperta nei confronti del regime che ha risposto con altra violenza. Ci raccontano di ordini dati ai piloti dell’aviazione, di bombardare Bengasi e Misurata ma ci dicono anche di coraggiosi piloti che non hanno eseguito gli ordini e hanno portato gli aerei a Malta e di altri che hanno sganciato le bombe sul deserto, pagando con la vita la loro disobbedienza.

 

Misurata, per non essere annientata, si è trasformata da benestante città  commerciale in un covo di ribelli o, se vogliamo vederla dalla altra parte, in un nucleo di resistenza. E la resistenza è nata spontanea fra i giovani che hanno per prima cosa dovuto armarsi, perché qui armi non ce n’erano. Quando le truppe governative sono entrate in città con i carri armati, le armi pesanti e gruppi di mercenari provenienti dai posti più diversi, un piccolo gruppo di combattenti ha assalito un deposito di munizioni.

 

La chiamata alla resistenza per gli uomini di Misurata ha avuto un unico disperato grido, quello di vincere o morire tutti con le proprie famiglie, altra scelta non vi era, se la resistenza avesse fallito, la città e i suoi abitanti avrebbero ancor più conosciuto l’odio e la follia del Colonnello. Quando chiediamo alla gente perché non sono scappati, tutti rispondono che Misurata è la loro città e questo è il loro paese e da qui se ne sarebbero andati solo in una bara ma forse, se avessero perso, non avrebbero avuto neanche quella.ù

 

In questi 80 giorni di assedio, le truppe del regime non hanno risparmiato bombardamenti a scuole, moschee, ospedali, ambulanze, stupri, rapimenti di civili, avvelenamento dell’acqua, cecchini che hanno avuto come bersagli bambini, ammazzati con una pallottola in testa mentre si trovavano in strada. Si racconta che il porto di Misurata è stato minato con delle bombe sganciate da un aereo non militare su cui le truppe del regime avevano dipinto una croce rossa….  aereo avvistato dai ribelli e non colpito proprio per quel emblema.

 

Ma i combattenti che qui chiamano  “i nostri ragazzi”, nonostante la sproporzione numerica, sono riusciti con battaglie strada per strada e casa per casa, a cacciare le truppe del regime anche se ogni azione è costata la vita di molti di loro. Ci raccontano di ragazzi morti per fare uscire allo scoperto i cecchini che in centinaia si erano appostati sui palazzi più alti della città per seminare la morte sotto compenso e anche di famiglie rimaste bloccate nel centro città e liberate dalla resistenza abbattendo decine di muri per riuscire a raggiungerli e portarli in salvo.

 

Sono stati 80 gg in cui la comunità di Misurata ha saputo unirsi in una catena si solidarietà con famiglie che hanno ospitato chi non aveva più una casa o chi viveva nel centro città bombardato, sono stati aperti pozzi per portare acqua alla gente e creati rifugi per le donne e i bambini. Le notti passavano al buio perché la centrale elettrica era stata distrutta e la gente angosciata e con il rumore delle bombe nella testa si chiedeva se avesse avuto un domani.

 

Dopo che il policlinico, è stato bombardato tutti i feriti sono stati curati in un piccolo centro che era una clinica privata con meno di 100 posti letto. In meno di tre mesi questo ospedale ha curato almeno 6000 feriti e si sono contati circa 600 morti fra civili e “combattenti”. Il personale ha fatto turni senza contare le ore per poter assistere tutti i feriti e dal momento che la maggior parte degli infermieri erano stranieri e se ne erano andati, gli studenti di medicina hanno preso il loro posto e sono ancora tutti lì. Ci raccontano che questo è il loro modo di aiutare i “fratelli combattenti” ed è solo per caso o per fortuna, se invece di tenere un arma in mano o di essere al fronte, loro impugnano siringhe e padelle, mettendosi al servizio della comunità.

 

Con lo stesso spirito altre decine di giovani hanno cominciato a fare il pane per la gente dal momento che qui quasi tutti i panettieri erano egiziani o marocchini ed erano scappati durante l’occupazione.

 

Chi sono dunque questi ribelli? sono persone comuni che si sono trasformate in combattenti per difendere la propria città e la libertà di poter vivere e autogestirsi. La maggior parte di coloro che sono al fronte non ha esperienza militare mentre in città una volta cacciate le truppe governative, sono sorti dei comitati formati da comuni cittadini e dai futuri politici con il compito di garantire l’amministrazione e i servizi essenziali. Cosa non trascurabile da ormai 4 mesi nessuno percepisce più uno stipendio, si vive con i risparmi e con gli aiuti internazionali. Le ronde nelle strade, la sicurezza in città, i check point e la distribuzione del cibo e degli aiuti è tutta gestita da volontari.

 

Nonostante le difficoltà e l’incubo del ritorno delle truppe di Gheddafi, la città ha ricominciato a vivere e l’odiata bandiera verde del regime è stata sostituita da quella nazionale, nera rossa e verde con la mezza luna e la stella e questi sono i colori che i giovani portano dappertutto, sui bracciali, sui cappelli, insieme alle due dite aperte che ci mostrano in segno di vittoria. Ma la sicurezza di averla scampata non c’è perché le truppe del Colonnello circondano Misurata e il fronte è a soli 40 km dal centro città.

 

Se non ci fosse il porto e il supporto logistico ed economico di Bengasi e della comunità libica che vive all’estero, la situazione sarebbe ben peggiore. Tutti sanno che in questo presente di non guerra e non pace mantenere le posizioni conquistate vuol dire continuare a vedere morire ragazzi di 20 anni, uccisi dalle armi pesanti di un regime che nonostante il costoso impegno bellico della comunità internazionale, continua imperterrito a seminare morte e distruzione.

 Testimonianza di un medico italiano a Misurata

1 commento
  1. redazione-d84
    redazione-d84 dice:

    Leggendo questa illuminante testimonianza si comprendono parecchie cose non solo sul dramma libico ma sulla figura di un certo tipo di volontariato che deve possedere grande coraggio e buona professionalità. E sono tanti anche se troppo poco se ne parla. 

    Adriano Serafino 

    Rispondi

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