Il mondo che verrà… Quattro lezioni dalla crisi coronavirus

Ha scritto Erodoto: Ta pathemata mathemata, le sofferenze insegnano.

Due interviste di Stefano Zamagni

Stefano Zamagni inizia, sul sito politicainsieme.com, ponendo questa domanda: Cosa ci sta insegnando la terribile crisi che dal 21 febbraio ci sta perseguitando? E da le quattro risposte che seguono.

Eistein sulle crisi

Vedi anche l’intervista su l’ Osservatore Romano, di Marco Bellizi a Stefano Zamagni su “Il mondo che verrà..”, che implica fare i conti con “nemici” importanti, a partire dal neoliberismo.

Zamagni – che è il principale promotore del “Manifesto per un soggetto politico nuovo e cristianamente ispirato” –  pensa con ottimismo che seguirà un’epoca migliore.

Primo. Dobbiamo riconoscerlo: negli ultimi decenni, la cultura, anche quella blasonata, ha di fatto posto in disparte quella virtù cardinale che è la prudenza. Anzi, si è voluto far credere che prudente è il soggetto che teme di prendere decisioni, perché avverso al rischio. Ma la prudenza – l’auriga virtutum secondo l’Aquinate, perché guida tutte le altre virtù – è esattamente il contrario. È piuttosto la virtù del voler guardare lontano per mirare al bene comune.

1 – Perché si è atteso fino al 21 febbraio per prendere i primi timidi provvedimenti quando si sapeva da oltre un mese e mezzo che in Cina (e subito dopo in Corea del Sud) il virus andava mietendo vittime?

2 – Perché si è fatto credere che la pandemia fosse un caso di cigno nero, cioè un evento imprevedibile, quando invece era stato previsto da almeno tre anni? (Cfr. la dichiarazione di Anthony Fauci, direttore dell’Istituto Nazionale per le malattie infettive USA, su “Healio”, gennaio 2017).

3 – Perché non si è tenuto conto del fatto, arcinoto, che il tratto iniziale della curva esponenziale che descrive l’andamento temporale dell’infezione è quasi piatto, il che ha indotto a credere che non ci fosse motivo di preoccuparsi più di tanto?

Chi l’ha detto che la funzione implementativa vada affidata alla sola burocrazia o ad organi statali?

secondo. La pandemia ci sta facendo comprendere la profonda differenza tra governmente governance. (Purtroppo la lingua italiana possiede solo un vocabolo: governo). Government è l’istituzione politica cui spetta l’ultima parola, come si è soliti dire; governance, invece, dice dei soggetti e dei modi in cui le decisioni finali prese dal governo devono essere concretamente realizzate per conseguire l’obiettivo dichiarato.

Solo chi non conosce o non crede al principio di sussidiarietà (circolare) può pensare questo. E dire che il nuovo articolo 118 della Costituzione (introdotto nel 2001) parla esplicitamente di sussidiarietà, rinviando ai corpi intermedi della società (art. 2 della Costituzione) il compito di intervenire fin dalla fase di coprogettazione degli interventi e non solo in quella della cogestione degli stessi.

Penso anche al Servizio Civile Universale, a questo “esercito del bene comune”, come è stato definito. Ci sono 80.000 giovani che nell’ultimo bando non hanno trovato posto per fare un anno di servizio civile volontario per la mancanza di copertura finanziaria, peraltro modesta. Perché non provvedere subito alla bisogna? E così via con tanti altri esempi.
Un solo esempio (per ragioni di spazio) di mancata applicazione del principio di sussidiarietà. Il professor Giuseppe Pellicci, direttore dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (un Ente di Terzo Settore) ha dichiarato: “Con più di 290 colleghi abbiamo offerto di aprire i nostri laboratori in tutta Italia e mettere a disposizione macchine e personale. Insieme possiamo analizzare i tamponi necessari. Solo in Lombardia saremmo in grado di passare dai circa centomila attuali a cinquecentomila” (“Corriere della Sera”, 26 marzo 2020). Ma l’offerta non è stata accolta.

Terzo. La salute di una persona e di una popolazione è funzione di cinque variabili.

Certamente la sanità è la prima di queste, le altre quattro sono: gli stili di vita, le condizioni lavorative, l’ambiente (ecologico), la famiglia. L’errore che continuiamo a commettere è quello di pensare che la nostra salute dipenda unicamente dalle strutture sanitarie. È bensì vero che questa crisi ha messo a nudo non poche carenze e inefficienze del nostro sistema sanitario, alle quali occorrerà porre rimedio in fretta. Ma se non prestiamo attenzione alle altre variabili potrà accadere che i tassi di mortalità e di morbilità non declineranno di certo.
Per farmi capire: non si muore e non ci si ammala solo a causa del virus, ma anche per la denutrizione (o malnutrizione) o per il senso di isolamento sociale che deriverebbero da una eventuale grave e lunga recessione economica. Con l’aggravante che, mentre il virus colpisce tutti indistintamente, le nuove povertà andrebbero a colpire gli scarti umani, come li ha chiamati papa Francesco.

Che fare allora? Occorre intervenire, sin da ora, senza aspettare la fine della pandemia (prevista per l’inizio dell’autunno), affinché il governo dia vita ad un gruppo di lavoro formato da persone competenti, libere da ogni legame di partito e di affari, con forte motivazione intrinseca, al quale chiedere di elaborare, in un lasso di tempo di non più di tre mesi, un piano di rinascita nazionale. Il gruppo dovrà darsi da sé le regole per lo svolgimento della propria missione, senza interferenza alcuna dall’esterno. Il piano verrebbe poi affidato al Governo e al Parlamento che decideranno in merito.
A scanso di equivoci, un piano non è una lista di proposte – ce ne sono già fin troppe – ma un insieme articolato di progetti. Sarebbe questo un esempio concreto di quella democrazia deliberativa (che non è, beninteso, la democrazia decidente) verso la quale il nostro Paese dovrà andare se vorrà vedere l’alba di un nuovo giorno.


C’è infine una quarta lezione da trarre, quella riguardante l’urgenza di ripensare in radice i Trattati europei, perché l’Unione europea ha bisogno di un “supplemento d’anima”. Non saranno le tecnicalità, pur necessarie, a salvare l’Unione. Ma di ciò approfondiremo in un’altra occasione.

Termino ricordando che la possibilità è sempre la combinazione di due elementi: le opportunità e la speranza. È sbagliato pensare che perché qualcosa possa realizzarsi sia necessario intervenire solamente sul lato delle opportunità, cioè delle risorse e degli incentivi. Occorre piuttosto insistere sull’elemento della speranza, che non è mai utopia. Essa si alimenta con la creatività dell’intelligenza politica e con la purezza della passione civile. È la speranza che sprona all’azione e all’intraprendere, perché chi è capace di sperare è anche chi è capace di agire per vincere la paralizzante apatia dell’esistente. “Tutto andrà bene!”