QUALE FUTURO PER LA CONTRATTAZIONE -redazione – sindacato 23/5/10
Solo dopo il boon economico, agli inizi degli anni ’60, si riuscì ad affermare il diritto alla contrattaziopne articolata, cioè a far sì che accanto al contratto nazionale di categoria trovasse posto il contratto di azienda regolato dalle clausole di rinvio che ne prevedevano i contenuti specifici. Si oppose sempre la Confindustria. Forti remore manifestò la Cgil temendo che contrattare i premi di produzione portasse al riconoscimento del “ maggior sfruttamento”; in seguito modificò questa valutazione a partire dalle esperienze delle categorie dell’industria e del processo d’unità spinto dai metalmeccanici negli anni 60 e 70. La discussione sui contenuti, sulle modalità della contrattazione articolata è sempre stata difficile, ieri come oggi, perché è una materia complessa . Per discutere sulla produttività e sull’efficienza aziendale servono per lo meno tre condizioni: la legittimazione reciproca tra le parti, l’autonomia ed un buon sistema di partecipazione e di decisione dei lavoratori, conoscenze e competenze dei sindacati e delle RSU. Certamente almeno una collaudata unità d’azione.
L’incremento della produttività è condizione per la crescita e lo sviluppo competitivo. Questo elemento, alla cui formazione concorrono molteplici fattori, tra cui investimenti ed ammodernamenti tecnologici, ma anche modelli organizzativi e capacità dinamiche di risposta a fronte delle mutevoli condizioni del mercato globale, rimane comunque fortemente influenzato dal grado di coinvolgimento (meglio dire “partecipazione”) dei lavoratori nelle diverse fasi dei processi produttivi. La contrapposizione artificiosa della produttività tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale, elude la domanda sul livello in cui viene generata: cioè la singola unità del processo produttivo. E’ quindi, del tutto evidente, che solo ed unicamente attraverso la contrattazione aziendale decentrata si può intervenire e si possono misurare gli incrementi di produttività. Ciò significa conoscere l’impresa nei suoi processi interni e nei suoi rapporti esterni; significa sapere come cambia il lavoro, al suo interno e come viene usato e realizzato. L’impresa moderna, pur con la sua alta automazione, non ha espulso il lavoro umano dai processi produttivi, come tutto lasciava pensare, ma si è riprogettata su basi tecnologiche ed organizzative nuove, per ottimizzare qualità dei prodotti e l’efficienza dei processi. Proprio per questo l’impresa moderna non può vivere di sola tecnologia e deve valorizzare il lavoro umano intelligente e creativo, in dosi sempre più consistenti per il proprio successo. Il lavoro richiesto è sempre più qualificato, responsabilizzato e specialistico e resta l’elemento fondamentale nel rapporto impresa–mercato. Il fattore umano è la risorsa strategica e sempre meno appendice delle macchine, come lo ha definito e voluto il taylorismo. In un mercato globale, planetario, la velocità dei cambiamenti è tale che sempre più viene richiesta, da parte dell’impresa, professionalità, responsabilità, adattabilità, flessibilità; quindi, “consenso ai fini d’impresa”. Si tratta di sapere se tale consenso viene passivamente o coercitivamente dato, oppure se, come ritengo, può rappresentare il tema fondamentale per riavviare una nuova fase di contrattazione aziendale. La premessa da cui partire è che sia dichiarata in modo esplicito, da entrambe le parti (impresa e rappresentanza dei lavoratori), la condivisione degli obiettivi dell’impresa, intesi come mantenimento e sviluppo della competitività. La dimostrazione di questa scelta sta nel suo contrario: se l’impresa non è competitiva deperisce, e chi ne paga le conseguenze maggiori sono i lavoratori (cassa integrazione, licenziamenti, chiusura della fabbrica, ecc.), cioè cose viste tante volte, sopratutto in questi ultimi tempi. Questo non significa, però, acquiescenza ed accettazione in modo subalterno di qualsiasi decisione dell’impresa; in una parola, partecipazione non è sinonimo di subalternità. Perché restano intatte le diverse rappresentanze degli interessi: l’impresa che tende a realizzare il profitto, l’utile da dividere tra gli azionisti; i lavoratori e le loro rappresentanze che tendono a migliorare le condizioni di lavoro e di vita ed allargare l’occupazione. Questa rappresentanza di interessi divergenti, però, sta insieme solo se l’impresa è competitiva, e può trovare un punto di equilibrio solo in un quadro accettato e condiviso di regole del gioco. Essendoci una scelta comune e condivisa (la solidità competitiva dell’impresa da coniugare assieme alla valorizzazione del lavoro e dell’occupazione), il punto è riuscire a trovare un sistema di relazioni industriali che permetta di conciliare le diversità degli interessi. La condizione è che entrambi (lavoratori ed impresa) accettino esplicitamente un sistema di relazioni industriali partecipative fondato sulla reciprocità dei rapporti (in termini di riconoscimento dei rispettivi ruoli, pari dignità, correttezza di relazioni, informazioni preventive, assunzioni di responsabilità, ecc., ed anche regolazione delle eventuali forme di dissenso). Queste nuove relazioni industriali partecipative, però, non nascono spontaneamente e non scaturiscono dalla semplice buona volontà. Si tratta di fare entrambi (impresa e lavoratori) un salto culturale, cioè acquisire la consapevolezza di valori e ragioni comuni e condivisi, che rendono reciprocamente conveniente definire obiettivi di efficacia ed efficienza perseguibili, ed al raggiungimento degli stessi, ridistribuirne i benefici. E’ bene sapere che molte sono le resistenze, su entrambi i versanti: • Dal lato delle imprese, sono ancora in molti che pensano che il lavoro sia una componente residuale rispetto a quella tecnologica e quindi siano più adatti modelli gerarchici e metodi gestionali autoritari, anche per evitare confronti con le rappresentanze dei lavoratori, spesso considerate un intralcio. In più c’è chi ritiene che il problema del lavoro sia unicamente il suo costo, senza rendersi conto che ci sarà sempre un paese emergente in grado di offrire manodopera ad un costo sempre minore (oggi India e Cina, domani . . . ?). Il terreno competitivo del futuro sarà sempre più la conoscenza (questo è il destino dell’Italia e di tutti i Paesi industrializzati), cioè produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto, dove i contenuti di tecnologia, know-how, di qualità, siano sempre in evoluzione e non replicabili altrove ed in grado di garantire alto profitto, alto reddito ed alta occupazione. • Dall’altro lato, quello sindacale, c’è ancora chi ha in mente l’utopia rivoluzionaria (irrealizzabile e storicamente sconfitta) del sindacato antagonista che deve a priori contrapporsi al capitalismo. Questa scelta è un inganno, perché rappresenta una apparente finta immagine “dura e pura” che rifiuta il confronto con l’impresa, mentre nasconde la fuga dalle responsabilità e lascia alla fine i lavoratori indifesi di fronte alle decisioni unilaterali che l’impresa comunque assume. E’ anche una scelta sbagliata, perchè soprattutto in un’economia globalizzata, il capitalismo se ne va da altre parti, laddove esistono condizioni vantaggiose (e tra queste ci sono anche relazioni industriali non antagoniste). Il carattere bipolare del sistema contrattuale (nazionale/aziendale) fin dalle sue origini negli anni ‘60, e nello stesso accordo interconfederale del luglio 1993, ha un punto debole, dato dall’assenza di “esigibilità” del 2° livello di contrattazione (aziendale e/o territoriale). Ritengo sia possibile utilizzare anche a livello decentrato, uno schema analogo alla cosiddetta “scala mobile carsica” (l’indennità di vacanza contrattuale in carenza di rinnovo del CCNL) introducendo una “produttività carsica”, cioè un sistema di “penali” da applicare laddove non si effettua la contrattazione di 2° livello. In questo senso alcune soluzioni già utilizzate, tipo adottare incrementi contrattuali aggiuntivi, destinati esclusivamente ai lavoratori delle aziende dove è assente la contrattazione decentrata, possono rappresentare un percorso utile. Inoltre, per quanto riguarda l’estensione della contrattazione nelle piccole imprese, la proposta avanzata dal prof. Giuseppe Bianchi è senz’altro condivisibile: un sistema “territoriale” che contemperi anche forme di protezione sociale, tra cui sostegni al reddito e servizi per il rientro nel mercato del lavoro, nuove offerte “low-cost” di servizi sociali, ecc. Le Relazioni Industriali Partecipative, quindi, si costruiscono a partire dal processo lavorativo, dal come è organizzata e gestita la fabbrica in tema di professionalità, organizzazione del lavoro, organici, utilizzo impianti, orari, ambiente, ecc. Raggiungere accordi sugli obiettivi di produttività e concordare comportamenti consensuali, è la vera base concreta su cui poggiare la scelta partecipativa. Il passaggio obbligato di questi accordi è dato dalla conoscenza e discussione dei piani di produttività dell’impresa. In sintesi, la partecipazione si realizza attraverso accordi centrati sulla implementazione di piani produttivi e sulla distribuzione dei benefici conseguenti tra lavoro e capitale in funzione del contributo dato da ciascuno. Il punto di partenza è l’esperto, di comune fiducia, che si fa garante della misurazione della produttività e delle soluzioni tecniche (non solo quantità prodotte, ma anche efficienza, qualità, aspetti reddituali, ecc.), la cui trasparenza costituisce la migliore garanzia di tutela degli interessi coinvolti. Sono peraltro, necessarie nuove politiche, soprattutto nella gestione del personale, anche sul versante della formazione, non solo professionale, ma “partecipativa”. Se da un lato va formato l’operaio partecipativo, dall’altro, anche il “capo gerarchico” necessita di una riconversione culturale per diventare un capo partecipativo; quindi riconosciuto come tale, per le sue competenze, professionalità, capacità innovative, funzioni di guida e di leader del gruppo, ecc. Nei casi in cui questo percorso è stato implementato i risultati si sono visti; esemplare è il caso di una azienda del gruppo Asea-Brown-Boveri, dove, nella fase di passaggio a produzioni automatizzate, si è contrattata la trasformazione del sistema retributivo in un sistema premiante collettivo basato sulla efficienza e qualità; accompagnato da investimenti non solo tecnologici, ma anche formativi, sia sul versante della riqualificazione professionale che su quello più propriamente “partecipativo” e che ha coinvolto l’insieme dello stabilimento (suddiviso per aree di responsabilità professionale). La strategia partecipativa, basata sul consenso, non elimina di certo il conflitto sociale, ma cerca di prevenirlo e, nel caso ciò non si verifichi, lo gestisce riducendone i costi distruttivi. In conclusione, la scelta partecipativa è, dal punto di vista sindacale, contrapposta sia al sindacato subordinato, sia al sindacato antagonista; rappresenta invece, l’espressione del sindacato autonomo soggetto sociale, in grado di assumersi e di far assumere responsabilità, che esercita il suo ruolo contrattuale collocando la partecipazione collettiva nella prospettiva di una crescita della produttività e del più generale livello di benessere anche per i lavoratori e l’occupazione. Flavio Pellis – Segretario Generale di “AReS – Associazione per il Riformismo e la Solidarietà”