Per una nuova cittadinanza
Savino Pezzotta insiste nella ricerca per aprire “nuove strade” per una nuova cittadinanza nel paese e sul lavoro. Anche per pensare “un sindacato nuovo” rigenerando quanto esiste. Pubblichiamo i suoi due ultimi articoli. Il primo che prende spunto dalla grande manifestazione sindacale del 16 ottobre a Roma per approfondire cosa lui intenda per “essere fascista”, ovvero il perno che alimenta la cultura fascista, di contro cosa significa essere antifascisti oggi. Nel secondo “Per una politica di cura condivisa” inizia con “Ci sono, a mio parere , le basi per poter fare un’urgente e necessaria rivoluzione della cura che ampli il concetto di cittadinanza e che assuma e integri i contributi essenziali del femminismo e li intrecci con una pluralità di riferimenti filosofici, etici e politici e teologici generando una nuova visione di grande ampiezza.” (…) – Nell’abstract trovate ampi stralci del lungo articolo “Contrastare la cultura fascista e aprire strade per la nuova cittadinanza nel paese e sul lavoro” che ben potrebbe ben servire per un seminario di approfondimento. In allegato il testo completo e il link per il secondo articolo postato sul suo blog IN RICERCA.
Così inizia Savino Pezzotta. Ho seguito per televisione e con vivo interesse, partecipazione e un alto tasso di empatia la manifestazione sindacale di sabato 16 ottobre, richiamato oltre che dalla passione sindacale da suo aspetto politico e ideale centrato sull’antifascismo e la democrazia. Del resto era questo che dava un segno unitario molto ampio a quella mobilitazione. Credo che questa sia stata la manifestazione più politica del sindacato negli ultimi dieci anni.
A mio parere ha avuto il limite di essere stata, nei discorsi, attraversata da tanta retorica – richiamando analogie inappropriate con eventi del sorgere del ventennio fascista – e da troppo spirito di organizzazione (…)
Nel mio pensiero è fascista chi fonda la sua visione politica sulla primazia nazionale, di razza, cultura e nega l’uguaglianza con altri (individui o popoli), considerati per qualche caratteristica inferiori, negando universalità ai principi di libertà, di uguaglianza, distorcendo il significato di patria, famiglia, religione per farne una barriera apertamente, o in modo mascherato, di stampo razzista. A volte creando muri di “difesa” per arrestare i flussi migratori dei nuovi “dannati della terra” (ne esistono 75 nel mondo, metà costruiti con filo spinato o in cemento in questo avvio del XXI secolo). Questo per me è il marchio fascista, ovvero la negazione dell’uguaglianza di donne e uomini, di popoli e culture , è il restare prigioniero di una mentalità coloniale e del primato dell’uomo bianco. (…)
E’ chiaro nella mia mente anche il pericolo dell’eredità fascista del modello corporativo, sempre risorgente come “l’araba fenice” sotto diverse spoglie, che pensa alle relazioni sociali e al ruolo dei corpi intermedi attraverso una visione mitica della vita e su una sorta di militarizzazione e statalizzazione fondata su forme autoritarie che essendo tali producono forme discriminatorie della politica. (…) Del resto, il nostro paese, per ragioni politiche, non ha fatto fino in fondo i conti con l’eredità del fascismo lasciando che certi tratti culturali si siano sedimentati. Oggi è possibile valutare e analizzare– storicamente, culturalmente, socialmente, politicamente – il “continuismo” e cosa ha comportato il passaggio di uomini e strutture dallo Stato, e dalle istituzioni fasciste, a quello democratico e repubblicano. Un fenomeno che ha attraversato le strutture statali, le gerarchie burocratiche, il giornalismo, l’accademia, l’economia e la finanza, l’esercito e la pubblica sicurezza. Ma anche i partiti e i sindacati. (…)
Ma quello che mi preoccupa di più è come in quest’epoca storica segnata da profonde innovazioni sul piano economico, tecnologico e di relazioni umani si sia rimasti fermi sul terreno dell’innovazione democratica e che si sia stati più preoccupati della difesa del vecchio patrimonio culturale, sociale e religioso e si fatichi nell’individuare e realizzare investimenti per rivitalizzare la democrazia rappresentativa, ad esempio con referendum propositivi e deliberativi e non solo di abrogativi. Il fatto che l’astensionismo al voto sia in costante aumento, pur non condividendo tale scelta, ritengo che questo fenomeno sia per ogni democratico un problema e un interrogativo e pertanto deve essere analizzato con rigore e compreso nelle sue motivazioni. Con troppo semplicismo si è manifestata una grande soddisfazione nel vedere scomparire le ideologie, ma non si è stati capaci di coprire quel vuoto. È ovvio che nel vuoto, come nel buio, ricompaiono i fantasmi. Non di ideologie la democrazia ha bisogno ma di vision e chiarezza di mission pur contrapposte.
Per quanto riguarda il sindacato, che per me resta il luogo in cui meglio si può comprendere l’intreccio tra mutamento sociale e democrazia, ho l’impressione, da osservatore simpatetico, che non abbia ancora colto, essendone direttamente coinvolto, che le ragioni del suo indebolirsi sono frutto dei processi di metamorfosi del lavoro e di ristrutturazione della società e soprattutto della corporativizzazione dei corpi intermedi da cui germina il populismo, anche rancoroso, che oggi chiassosamente circola nelle nostre piazze e che non disdegna la violenza. (…)
Si tratta di fare uno sforzo per capire come il lavoro è cambiato nel cuore e nella mente di chi lavora. Non bastano più le intelligenti e utili analisi sociologiche e statistiche, o descrizioni futuriste, abbisogna la concretezza con cui il lavoro si incarna e si invera nella vita personale nei suoi aspetti globali, razionali, emotivi e estetici. Poiché solo cogliendo questi aspetti si può contribuire al necessario rinnovamento totale del destino delle persone impegnandole per un “destino comune e di solidarietà”, soprattutto a innanzi a quelle che attualmente appaiono le due grandi sfide verso il lavoro: il cambiamento climatico e la pervasività delle nuove tecnologie e dell’Intelligenza Artificiale nell’umano e nel vivere insieme. Poiché queste nuove tecnologie non sono neutrali ma incidono in profondità sul nostro essere e ci impongono modelli di organizzazione sociale possono trasformare la nostra struttura culturale e antropologica e di conseguenza le forme del vivere sociale. Ormai da diversi anni sta sorgendo un modo di pensare e di pensarsi totalmente differenziato da quello in essere negli “anni gloriosi” dell’espansione sindacale che si orienta oltre la naturale solidarietà propria delle persone al lavoro, ma che sta sviluppando una soggettività individuale che tende a esasperare la competitività personale e l’accentuazione esagerata del merito, diventa necessario che il sindacato riesca a ridefinire il suo futuro, il suo nuovo statuto, il suo fondamento e le ragioni ideali dell’organizzare delle persone. Un sindacato che si riprogetta in senso post-moderno e che diventa sostenitore e promotore di nuove forme di democrazia sociale e politica, innervata da pratiche diffuse di democrazia partecipata al suo interno e nella realtà politica. (…)
Conclude con questo auspicio. La manifestazione di sabato 16 ottobre non può essere archiviata come colpevolmente abbiamo fatto con molte altre, ma essere un pungolo perché l’essere antifascista sia foriero di una nuova tensione democratica e di una spinta verso una nuova cittadinanza del lavoro e delle persone.
In allegato il testo integrale, l’articolo è stato anche pubblicato il 29 ottobre su Il Riformista https://www.ilriformista.it/dai-germi-dellantifascismo-un-sindacato-forte-e-aperto-257628/
Con questo link un secondo articolo di Pezzotta https://savinopezzotta.wordpress.com/ Vedi anche articolo correlato Il mondo che cambia e le risposte dei cattolici di Mauro Magatti pubblicato su Il Corriere della Sera
Sarebbe del tutto superfluo affermare di condividere l’analisi che Savino fa della manifestazione si sabato 16 ottobre, del risorgente fascismo che occupa spazi lasciati liberi da altri, dei limiti della pratica democratica, di cui l’astensionismo è l’aspetto più preoccupante, e della necessità per il sindacato di ripensare molto seriamente se stesso nelle realtà sociale, politica, economica e culturale già profondamente cambiate e destinata a cambiamenti futuri ancora più profondi.
Ciò che manca nella riflessione di Savino è il riferimento all’Unità Sindacale, ma non credo sia una mancanza grave se si considera il riferimento al “sindacato” privato dalle sigle che lo identificano quale riferimento “unitario” collocato oltre le sigle di CGIL, CISL e UIL. Se non si conviene che in questa fase storica e soprattutto nella prospettiva di breve/medio periodo l’unità sindacale è una prioritaria necessità, ciò che non si fa per ragioni politiche e ideali dovrà essere fatto per necessità: se CGIL, CISL e UIL continuano a perdere iscritti, verrà il momento che dovranno realizzare l’unità sindacale. E’ sicuramente più opportuno che questo avvenga per una scelta politica che non per necessità.
Ottimo intervento di Mauro Magatti sul Corriere della sera di oggi, in merito alla 49° Settimana Sociale che si apre oggi a Taranto.
Per molti, poco credenti, questo avvenimento può non significare nulla o molto poco. Altri, che credono di credere, è bene che si chiedano se la gracilità della fede, che vediamo nelle nostre realtà sociali, non sia la condizione necessaria per passare dalla “debolezza del credere” ad una “maggiore autenticità.”
All’inizio di questo XXI secolo coloro che credono di credere e di non credere, hanno il dovere di aiutare la Chiesa nel cogliere i “segni dei tempi”, perché non sono più le certezze granitiche quelle che richiamano e legano, ma sono quelle che sanno accompagnare e ad attraversare l’insicurezza costitutiva e ineliminabile della nostra comune condizione.
Questa Settimana Sociale, ma anche il percorso del Sinodo che si è aperto domenica 17 ottobre e che si concluderà nell’ottobre 2023, è un invito rivolto a molte donne e molti uomini che fanno parte di una comunità (il luogo della “comune umanità) in cui vivono la vita, a ritrovare la voce per dire la fatica del vivere, il peso dei fallimenti, la mortificazione dell’isolamento, ma è anche un pressante invito alla Chiesa, quella locale in particolare, perché sappia aprirsi all’ascolto di quanti, perfettamente sconosciuti nella loro dimensione di fede, che non osano neppure pensare di poter essere ascoltati.