Dario Di Vico nell’editoriale “Lo sforzo che serve sul lavoro”, su Il Corriere della Sera, esprime severe e motivate riserve su quanto è scritto per il lavoro nel Pnrr del Governo Draghi. Avverte il rischio di una mancata riforma sul lavoro, dei provvedimenti che non delineano una nuova strategia. Le risorse e le competenze non s’inventano con la bacchetta magica, le strutture esistenti rimarranno inefficienti anche con più personale. I Centri per l’impiego andrebbero ripensati in partenariato con le agenzie del lavoro. Di Vico commenta come “deludente” quanto finora fatto finora dal Governo nel campo delle politiche attive del lavoro. E’ un’analisi che deve far “fischiare le orecchie” anche alle Confederazioni sindacali che finora hanno invocato la riforma degli ammortizzatori sociali senza definire una propria piattaforma unitaria, conociuta dai lavoratori, coinvolgendo anche la Confindustria. Le riserve espresse da Di Vico trovano conferma nell’articolo del direttore de Il Foglio “Lavoro: il Recovery ha un guaio” che commenta lo studio del ricercatore Andrea Garnero (Ocse) nel quale si evidenzia che per ogni milione speso per il Recovery, in Italia verranno creati 3,9 posti di lavoro. In Francia 12. In Spagna 11,5. In Grecia 6,2. In Germania 8,2. Campanelli per le ambizioni italiane. (v.allegato)

Così scrive Dario Di Vico. Quanto l’azione del governo Draghi riscuote meritati consensi sul fronte del contenimento dell’emergenza Covid, tanto risultano deludenti il disegno e l’attuazione delle politiche per il lavoro. La sensazione è che non si stia dedicando alla formazione delle competenze la stessa cura che ricevono (giustamente) la transizione ecologica e quella digitale.

Di questo passo, però, si andrà a rendere lacerante la contraddizione tra un sistema produttivo che ha scelto di posizionarsi sulla fascia alta del mercato e politiche per il capitale umano che non seguono lo stesso itinerario, ma sono dettate dalle esigenze di posizionamento politico del ministro di turno. Si incentivano gli investimenti per le macchine 4.0 ma non si preparano i macchinisti, come purtroppo dimostra l’impossibilità da parte delle multinazionali tascabili del nuovo triangolo industriale di trovare i tecnici di cui hanno bisogno.

In linea di principio il lavoro avrebbe dovuto avere diritto nell’ambito del Pnrr al rango di riforma, come è stato riconosciuto alla concorrenza. Non è stato possibile perché Bruxelles non avrebbe accettato di finanziare quelle che in gergo si chiamano politiche passive (la riscrittura degli ammortizzatori sociali) e così alle scelte per l’occupazione è venuto meno un faro, un criterio ordinatore. Dopo la damnatio memoriale del Jobs act avremmo avuto bisogno di chiarirci le idee e di mettere nero su bianco un programma «laburista» di medio termine.

Un programma che magari pescasse qualche idea dal rapporto finale del Gruppo dei Trenta, redatto in tempi non sospetti da Mario Draghi e dall’Indiano Raghuram Rajan. Purtroppo però la politica italiana usa il lavoro come un ministero-bandiera e quindi almeno dal 2018 si procede all’insegna del taglia-cuci-e-riscuci dei diversi provvedimenti adottati. Molta giurisprudenza di pronto intervento, poca economia.

E basta leggere le pagine del Pnrr dedicate al lavoro per rafforzarsi in questo giudizio. In buona sostanza la stesura è rimasta quella dei tempi del governo Conte con un’unica solida intenzione: dare più soldi alle strutture esistenti. Ma le risorse non sono una bacchetta magica, non trasformano i rospi in re e quindi quelle strutture so­no destinate a rimanere inefficienti anche con una maggiore dotazione di personale. Vale per i Centri per l’im­piego che andrebbero ripensati in partenariato con le agenzie del lavoro (che non possono essere nominate perché in odore di turbo-capitali­smo!), vale in ima chiave diversa per il programma per l’occupabilità (Gol) di competenza delle Regioni ma che pur­troppo rischia agli occhi di Bruxelles di apparire come una duplicazione di fondi.

C’è ampia materia, dunque, per una vera discussione sull’indirizzo che stanno prendendo le politiche per il lavoro. Anche perché si avvicina la sca­denza della riforma degli ammortizza­tori sociali e sembra prevalere l’orien­tamento più dispendioso, quello della «Cassa per tutti», una scelta che non possiamo permetterci sine die.

Il senso di improvvisazione di cui sopra trova conferma anche in un ulti­mo episodio. È di queste ore la presen­tazione di un’ennesima tipologia di contratto che presenta evidenti con­traddizioni e rischia per di più di non avere nessuna efficacia. Il neonato si chiama contratto di rioccupazione e dovrebbe servire ad assumere a tempo indeterminato con una decontribu­zione previdenziale di sei mesi, condi­zionata alla presentazione di un pro­getto ad personam. Come però ha messo in evidenza ieri II Sole 24 Ore, per dei limiti di finanziamento previ­sti dalla Commissione europea non si applicherà alle grandi e medie impre­se (hanno già esaurito il loro plafond) e di fatto potranno utilizzarlo solo le piccole e micro-imprese. Sicuramente le meno attrezzate a redigere un pro­getto di inserimento individualizzato.

Un pasticcio, dunque, che fa addirittu­ra sorridere nella misura in cui gli estensori si sono spinti a prevedere già un tiraggio di oltre 500 mila assunzio­ni. La verità è che la vicenda del nuovo contratto sommata al blitz sul prolun­gamento del blocco dei licenziamenti al 28 agosto e alla fantasiosa soluzione data al caso Anpal (per silurare il guru dei due mondi, Mimmo Parisi, si è da­to vita a uno spezzatino delle compe­tenze) finisce per rafforzare l’idea di un ministero dedito al bricolage deci­sionale, in evidente contrasto con la narrazione di un governo che sa pen­sare non solo all’oggi ma anche al do­mani.

P.S. La statistica europea ha deciso che i cassaintegrati a zero ore dopo 3 mesi vanno conteggiati nella casella degli inattivi ma si sta chiudendo un’intesa alla Embraco che, invece del­l’auspicata reindustrializzazione, ga­rantisce un’ulteriore provvista di Cig per sei mesi. Un contratto di inattività, lo si potrebbe definire. Dario Di Vico Il Corriere della Sera 23 – 5-2021

ALLEGATO

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