La guerra diventa terrorismo di Stato
Massimo Cacciari mette al centro della sua analisi l’eclisse del diritto internazionale – Onu, convenzioni di Ginevra, Corte internazionale – perseguito dai governi che dispongono di una grande forza militare – spiccano tra questi Usa, Russia, Israele – per imporre la legge del più forte che spesso coincide con il prepotente. Non basta una divisa dell’esercito nazionale per essere assolti dall’aver compiuto atti di terrorismo e di massacri. La guerra diventa mezzo di pura eliminazione dell’avversario, considerato il Male, senza più lo scopo di risoluzione delle contese.
Quando la guerra diventa terrorismo di Stato il popolo è il nemico assoluto da abbattere – di Massimo Cacciari su La Stampa 16-5-25
<< La crisi degli equilibri internazionali e delle culture politiche che hanno comunque retto l’Occidente nel corso del secondo dopoguerra si sta ormai manifestando così radicalmente da doverci indurre a considerazioni che vanno ben oltre gli avvenimenti attuali, per quanto tragici, e il giudizio sui loro protagonisti, per quanto detestabili ci appaiano.
Possono le potenze statuali che oggi si confrontano raggiungere una politica di pace? Non intendo il “pacifismo” idea regolativa, che vorrebbe metter fuori legge la guerra, bensì la concreta costruzione di una rete di patti e regole, che ogni Stato può sancire nel proprio assetto istituzionale, rendendola così positiva. Questa linea di condotta, che era emersa dopo il 1945 come l’unica perseguibile se si volevano evitare nuove catastrofi, sembra oggi respinta da tutti i principali attori. Sembra che solo dal campo di battaglia si debba attendere la decisione dei conflitti. Si prepara la guerra per farla o continuare a farla. E la guerra perde ogni retta intenzione, quella di risolvere una contesa determinata, per divenire un mezzo di pura e semplice eliminazione del nemico.

Il fondamento culturale che ha permesso anche nei momenti più drammatici di non far precipitare i conflitti internazionali tra i grandi spazi politici in guerra totale sembra crollato. Questo fondamento aveva, certamente, un carattere conservatore, da “Santa Alleanza”, e non avrebbe comunque potuto reggere oltre il crollo di una delle due potenze che in essa detenevano il primato, ma nel suo assetto vi era anche dell’altro: l’idea che dopo la seconda Guerra Mondiale gli Imperi dovessero in tutti i modi evitare di trovarsi faccia a faccia, e che perciò nelle stesse guerre per interposta persona in cui si fossero trovati impegnati, essi si sarebbero regolati in forme “tollerabili” per l’altro, in base a uno ius belli in qualche modo condiviso.
Sono fatti incomparabili, lo so, e tuttavia tragici prodotti della stessa crisi: mai nel faticoso, precario, sostanzialmente iniquo, ma tuttavia equilibrio della “guerra fredda” uno Stato avrebbe potuto invadere un altro fuori dal “dominio” assegnatogli o massacrare deliberatamente popolazioni civili. Gli Stati Uniti non hanno raso al suolo Saigon con dentro i suoi abitanti.
Manca qualsiasi energia in grado di “contenere” la guerra all’interno di una forma che somigli al diritto. Ciò dipende senz’altro dal fatto che i contendenti sembrano protesi a un solo obbiettivo: la resa incondizionata del nemico. Richiesta che può assumere anche l’aspetto, come spesso è avvenuto, di richieste per questi irricevibili.
Quando la resa incondizionata diventa il fine, ne deriva per necessità logica che prima o poi si dispieghino tutte le forze e tutti i mezzi disponibili per ottenerlo. Mettendo tra parentesi, per coltivare almeno questa speranza, il ricorso ad arsenali nucleari, rimangono altri strumenti, anch’essi sostanzialmente “silenziati” durante la guerra fredda, che possono essere posti in atto – uno di questi è il sistematico ricorso a strategie terroristiche, nel senso tecnico del termine.
Terrorismo significa condurre la guerra al di là di ogni diritto, come non avvenisse tra eserciti, senza rispetto per convenzioni o divise, allo scopo primario di ridurre la popolazione civile dello Stato o della nazione nemici all’assoluta disperazione non solo sui propri attuali governanti, ma sulla propria stessa esistenza.
La guerra terroristica di Stato sta diventando sotto i nostri occhi la norma. Ogni diritto internazionale era già stato ridotto a pezzi da invasioni di Stati sovrani, penose strumentalizzazioni di principi anche mossi da nobili intenzioni, come la “difesa di innocenti” o la “difesa preventiva”, ma sempre la volontà del più forte si era ritratta dal ricorrere alla guerra terroristica su scala totale, e cioè a trattare da nemico assoluto il popolo, donne e bambini, dello Stato o dell’autorità politica che si intende abbattere. Anche questa soglia è stata scavalcata e siamo davvero ormai dentro l’abisso.
Se oggi trionfa il diritto del più forte, e cioè il non-diritto, il male affonda forse ben oltre la radicalità dei conflitti in atto e il clamoroso fallimento delle ideologie economicistico-liberiste che affidavano al business sui mercati la loro regolazione. È crollata ogni capacità di contenere l’espressione del proprio interesse riconoscendo insieme quello dell’altro.
Non si può formare alcuna comunità internazionale se viene meno, all’interno di ciascuna parte, il senso di una co-appartenenza. Se nulla abbiamo in comune ab origine, mai potrà costruirsi una politica di pace. Aristotele diceva che l’essenza dell’agire politico consiste nel produrre amicizia. Non era un astratto pacifista, considerava invece ineliminabile il male della guerra. Ma riteneva che il nemico fosse l’orizzonte ultimo, non il primo ed esclusivo dell’arte della politica.
È inutile nasconderlo. Nel corso della civiltà europea la forza spirituale che ha esercitato comunque un’influenza contenitrice rispetto al dilagare della guerra in quanto azione volta a negare l’esistenza del nemico, è venuta dalla cristianità, pur nelle sue diverse espressioni o confessioni e dalla Chiesa cattolica in particolare negli ultimi due secoli. È dalla cristianità che provengono le istanze più forti per stabilire un diritto alla guerra, nella guerra e per paci successive che non siano germi di nuove catastrofi.
Quest’azione la si deve senz’altro al formidabile paradosso che agita la cristianità fin dalle origini: come comporre la assoluta, irrevocabile condanna di ogni violenza pronunciata dal Figlio con le esigenze di compromesso con le potenze mondane che nascono dal vivere in questo mondo, sia pure da pellegrini? Questo paradosso cessa completamente di essere avvertito e perciò cessano gli sforzi volti ad affrontarlo. Tutto avviene ut Christus non esset, come Cristo non fosse mai stato. Altro non resta che la volontà di potenza dei diversi Stati o Imperi. “Giusta” sia allora soltanto la guerra da essi dichiarata e svolta con ogni mezzo ritenuto da essi efficace. L’Apocalisse può attendere? — >>
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