Il divano di cittadinanza

Tito Boeri e Roberto Perotti, su La Repubblica, in Il divano è solo un mito. Il Reddito sostiene chi non può lavorare” replicano a troppi luoghi comuni accusatori verso il Reddito di cittadinanza, ripetuti a Cernobbio, e dichiarano “Infondata la tesi per cui il sostegno disincentiva la ricerca di impiego …Pochi dei beneficiari sono occupabili. Il sussidio va riformato, separandolo dalle politiche attive e poi allargato a tutti i poveri..”. Questo il testo.

C’è una tesi molto popolare di questi tempi nell’altro ramo del lago di Como, dove agli inizi di settembre si riuniscono politici, industriali e banchieri. Per una volta ha messo d’accordo Giorgia Meloni e Matteo Salvini, è stata ripresa da Alberto Bombassei, presidente del gruppo Brembo, ed è rimbalzata fino a Ponte di Legno alla scuola di politica organizzata da Matteo Renzi. Secondo questa tesi, che per comodità chiameremo “il divano di cittadinanza”, le imprese faticherebbero a trovare i lavoratori di cui hanno bisogno perché questi se ne stanno comodamente sdraiati su di un divano con in tasca il Reddito di Cittadinanza.

Non uno degli estensori di questa teoria si è preoccupato di raccogliere un dato per corroborare la sua tesi. A nessuno è venuto in mente di guardare i dati disponibili (a partire dall’ultimo Rapporto Annuale dell’Inps) su chi sono i percettori del Reddito di cittadinanza. Se lo avessero fatto, si sarebbero resi conto che solo un terzo di questi è in grado di lavorare e ha sottoscritto un Patto per il Lavoro e che, fra questi, una percentuale rilevante deve comunque ricevere formazione prima di essere collocabile.

I dati sulle assunzioni di lavoratori stagionali mostrano anche che sono fortemente aumentate rispetto al 2019, mentre mancano i cuochi nella ristorazione e qualifiche intermedie nel commercio che ben difficilmente si trovano fra i percettori del Reddito di cittadinanza. Semmai si lamentano carenze di stagionali in agricoltura dovute alla mancanza di manodopera immigrata, che non può ricevere il Reddito di cittadinanza perché non soddisfa il requisito di 10 anni di residenza continuativa previsto dalla legge.

Se i teorici del “divano di cittadinanza” avessero guardato le serie Istat sui posti vacanti si sarebbero accorti anche che non c’è stata alcuna impennata dopo l’introduzione di questo strumento e che siamo tuttora al di sotto dei livelli del 2019. Ma al di là del caso specifico è grave che in Italia si continui a discutere di cosa tenere e cosa cambiare delle politiche sociali in atto senza preoccuparsi minimamente di valutarne seriamente l’impatto con metodologie non spannometriche.

Non è certo facile valutare quantitativamente le politiche sociali e chi scrive non ha la pretesa di avere la risposta in tasca. Ma i teorici del “divano di cittadinanza” farebbero bene a riflettere su alcuni studi recentissimi dell’esperienza statunitense, dove la riduzione in diversi Stati nella durata dei sussidi di disoccupazione (peraltro più simili alla nostra Naspi e alla cassa Integrazione che al Reddito di cittadinanza, che abbiamo visto riguarda per lo più persone lontane dal mercato del lavoro) non ha portato ad un aumento significativo dei flussi dalla disoccupazione al lavoro rispetto agli altri Stati.

Noi abbiamo politiche nazionali e quindi non è possibile imparare comparando l’esperienza delle diverse regioni, e questo rende difficile valutare gli effetti del Reddito di cittadinanza. Nel caso delle politiche attive del lavoro, invece, abbiamo una grande variabilità nelle misure adottate sul territorio nazionale. Questo può essere un vantaggio per capire cosa funziona e cosa no, ma ci vuole qualcuno, dati alla mano, che lo faccia. Oggi l’Anpal, che potrebbe svolgere questo ruolo, non ha i dati per farlo. Per questo abbiamo suggerito di integrarla nell’Inps che ha disposizione le informazioni sulla copertura, durata e generosità dei sussidi. Mettere l’Anpal in condizioni di operare è fondamentale se vogliamo rispettare i tanti impegni presi nel Pnrr sulle politiche attive del lavoro e se vogliamo facilitare la ricollocazione dei lavoratori coinvolti nelle tante crisi aziendali gestite al Ministero dello Sviluppo Economico.

Tutto questo non significa che il Reddito di cittadinanza funzioni a meraviglia. É anzi nostra convinzione che vada riformato. Può darsi che il suo importo sia eccessivo rispetto ai salari medi in certe regioni del Sud, ma questo è un argomento per differenziarlo tra regioni, non per abolirlo. Una scelta politicamente esplosiva, ma da valutare seriamente. Inoltre è necessario disfarsi della confusione di fondo che ha minato il Reddito di cittadinanza dal suo inizio: la commistione con le politiche attive per cui la gran parte delle regioni non erano preparate.

Infine il Reddito di cittadinanza raggiunge troppi pochi dei poveri oggi presenti nel nostro Paese. Questo significa che, una volta riformato, non costerà presumibilmente meno che adesso. C’è chi fra i teorici del divano di cittadinanza si è già impegnato a devolvere alle imprese le risorse oggi assegnate al Reddito di cittadinanza. Il Presidente del Consiglio, che ha dichiarato in passato di condividere la necessità di avere in Italia una rete di protezione di base, dovrebbe chiarire subito che non se ne parla.

L’Italia ha bisogno di uno strumento universale di contrasto alla povertà, che oggi hanno tutti i paesi della Ue. Deve sicuramente migliorare quello esistente, ma non deve abolirlo.

In allegato articoli per approfondire come ha funzionato finora il RdC e su quali meccanismi si basa: è una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Si tratta di un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari. Il Reddito di cittadinanza è associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e sociale. I protagonisti sottoscrivono un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale. Come stabilito dal DL 4/2019, i cittadini possono richiederlo dal marzo 2019. Per accedervi il nucleo familiare deve avere un Isee sotto un determinato valore e un patrimonio mobiliare e immobiliare limitato

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