L’interesse superiore
Il Congresso della Cgil si è svolto in quattro giorni a Rimini ed è stato – come tutti i congressi – un evento politico-sindacale mediatico più rivolto ad interlocutori esterni, all’immagine che si vuole rappresentare che non al dibattito interno e al confronto verso le altre organizzazioni sindacali. Il focus di maggior riverbero è stato verso il governo con l’ intervento, per la prima volta di un premier di destra, Giorgia Meloni. La Cgil ne esce più autorevole? Ne esce rafforzata la prospettiva di unità d’azione con Cisl e Uil? C’è stata troppa esposizione mediatica di Landini? Verso i partiti dell’opposizione? Verso il governo? E’ la premier Meloni che rafforza la sua strategia? Al riguardo pubblichiamo, qui di seguito, l’interessante commento “L’interesse superiore” della redazione di www.il9marzo.it.
Nella relazione introduttiva di Maurizio Laudini è stata avanzata la proposta ad Cisl e Uil di procedere, per le aziende sotto i 15 dipendenti dove il sindacato ha scarsa presenza e dove l’applicazione dei contratti nazionali è spesso solo di facciata, alla elezione unitaria delle rappresentanze sindacali espresse territorialmente. Caduta nel vuoto? Eppure anche in funzione del salario minimo può avere un gran rilievo.
Abbiamo raccolto molti commenti ma non siamo in grado di selezionare quali inserire in questo abstract. Sarà per il prossimo.
Per intanto segnaliamo il link https://www.collettiva.it/tag/congresso-xix/ dove potete trovare i documenti del XIX Congresso Cgil e gli audio video dei quattro giorni del Congresso Nazionale Cgil svoltosi a Rimini dal 15 al 18 marzo: 90 link, in 10 pagine.
L’interesse superiore – commento sul Congresso di Rimini, sul confronto Laudini-Meloni, della redazione di www.il9marzo.it – La cultura politica di Giorgia Meloni è una cultura dello scontro: negli anni giovanili ci si scontra e si fa a botte, poi, quando si arriva al novantesimo minuto e l’arbitro fischia la fine, con quelli dell’altra squadra ci si può stringere la mano e scambiarsi la maglietta sudata. Restando avversari ma riconoscendosi a vicenda di aver combattuto con onore.
Chi abbia presente questo non si può stupire più di tanto che sia stata proprio lei a salire sul palco della Cgil, in una sala dove i contestatori sono serviti ad evidenziare il significato del momento più che a delegittimarlo: “io vengo fischiata da quando avevo sedici anni”, ha detto la presidente del consiglio, ribadendo implicitamente di essersi forgiata nello scontro; e attraverso lo scontro, fino all’opposizione isolata al governo Draghi, di essere arrivata a Palazzo Chigi.
Proprio per questo, per questa cultura politica che premia l’azione, il movimento, lo scontro con chi a questo movimento si oppone (una cultura politica di cui ci sembra superfluo indicare il nome proprio), è naturale che la presidente del consiglio nera privilegi l’interlocuzione con la confederazione rossa.
E lo abbia fatto ribadendo che il suo governo è “il più lontano” dal mondo della Cgil e presentando delle linee di azione che sono una porta in faccia a tutte le richieste sindacali. Il fatto è che la cultura dello scontro è una cultura binaria e vuole produrre la polarizzazione sugli estremi: la politica è fatta solo da me e chi a me si oppone, tutto quello che sta in mezzo deve schiacciarsi o a destra o a sinistra, o su di me o sul mio avversario.
Poi però, come ha detto Giorgia Meloni spiegando perché aveva accettato l’invito, viene il momento dell’unità nazionale. “Oggi non è un giorno come gli altri”, ha sottolineato, ribadendo di essere “il presidente del consiglio idealmente più lontano dalla platea che ho di fronte” ma anche la prima ad intervenire in questa veste da 27 anni. E di farlo nel giorno dell’unità nazionale, 17 marzo. Perché l’unità “non è annullare la contrapposizione”, ma è riconoscere da una parte e dall’altra “l’interesse superiore” (per fortuna, Giorgia Meloni si è fermata qui e non ha detto “interesse superiore della nazione”, altrimenti avrebbe citato la formula della legislazione italiana di quel ventennio là).
E Landini? A cosa gli è servito invitare Giorgia Meloni per sentirsi rispondere no a tutto, dal fisco al salario al reddito di cittadinanza? Come per la presidente del consiglio, il risultato è politico: la Cgil ora ha lo status di avversario riconosciuto di un governo che conosce solo la dinamica dello scontro e del successivo incontro nel nome dell’interesse nazionale. Se c’è da litigare, è con la Cgil che si litiga. E se ci sarà da concludere qualche armistizio, la firma decisiva sarà quella di Landini. Un po’ nel “superiore interesse nazionale”, un po’ nell’interesse delle due parti che si scontrano ad annullare il pluralismo di ciò che sta in mezzo e non ci deve stare. Gli altri sindacati possono solo scegliere fra la strategia dello scontro che li appiattirà sulla leadership (confusa ma sindacale) di Landini, o accodarsi al governo “più lontano”.
E così Via Po 21 rischia di tornare indietro di quarant’anni, a quando Carniti e Marini ricostruirono l’unità della Cisl sul comune rifiuto di riconoscere il potere di veto che la Cgil pretendeva di avere per bloccare l’accordo con il governo Craxi sulla scala mobile (quando Cgil voleva dire componente comunista della Cgil, cioè segreteria del Pci). Perché a stare fermi, o ad occhieggiare un giorno all’Ugl ed un giorno all’unità con Cgil e Uil, un giorno al governo ed uno all’opposizione, si viene scavalcati nei rapporti con Palazzo Chigi dopo essere stati scavalcati anche nei rapporti con il Vaticano.
Cose che succedono, quando la confederazione si affida ad una gerontocrazia in stile Urss, dove il problema che preoccupa i cuori e le menti non è la giustizia sociale ma la federazione dei pensionati ed il destino dell’anziano segretario generale in vista del congresso.
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