TASSE E STRATEGIE CONFEDERALI – Antonio Buzzigoli – Sindacato & politiche – 11/1/10

Negli anni novanta la questione fiscale fu affrontata e discussa, in modo preminente, in riferimento alla crisi della social democrazia, considerata non più in grado di mantenere i costi dello stato sociale data l’elevata entità di risorse che venivano tolte alle imprese ed ai lavoratori. Insieme agli effetti dei processi di globalizzazione che riducevano la capacità di intervento degli stati nazionali, furono questi gli elementi che servirono ad avviare la discussione sul superamento di consolidati modelli sociali ed economici, quelli ad esempio dei paesi europei con l’esclusione della Gran Bretagna,e ad intraprendere la strada del liberismo sempre più sfrenato, ove la componente mercato assumesse metro e paradigma di ogni valore.

Sulla base di questi presupposti si giunse presto alla conclusione che le tasse determinavano un disincentivo al risparmio, agli investimenti ed alle offerta di lavoro, dimenticando del tutto che l’innalzamento dei rischi dettato dai processi di globalizzazione esigeva sempre più adeguati livelli di protezione sociale, come del resto verifichiamo quotidianamente.

Con il procedere del liberismo economico come idea dominante, la tassazione è stata vista sempre più come elemento ostativo dello sviluppo economico accompagnandosi alla volontà di contenere il più possibile il ruolo dello stato e dei servizi offerti. In molti casi il dibattito è diventato del tutto ideologico, fuori dal concreto evolversi della realtà sociale ed economica, arrivando sempre più a dissociare il ruolo dell’individuo da quello dello stato e della collettività che rappresenta, riconoscendo al primo dei diritti di proprietà precedenti a quelli dello stato, quasi non negoziabili.

Si tratta, come bene sostiene Laura Pennacchi nel suo ottimo saggio “La moralità del Welfare”  di una concezione preistituzionale della proprietà che considera la tassazione come una ferita, un’alterazione dei diritti di proprietà. Su questo cammino non solo vengono scissi tutti i legami e le relazioni all’interno della collettività, ma si perviene, all’estremo, a deresponsabilizzare completamente la società dalla povertà e dalle crescenti disuguaglianze in quanto, in un’economia di mercato, sono più attribuibili alle responsabilità dei singoli individui che non a  processi di ingiustizia sociale mai contrastati.

E’ naturale che, in questa logica, le tasse siano vissute come un esproprio e si perda quello che è il nodo del problema, che esse debbano essere valutate non in se stesse, ma primariamente per la qualità e l’estensione dei servizi offerti, di quei beni collettivi che sono i nostri legami di cittadinanza e, in secondo luogo per la maggior giustizia sociale che contribuiscono ad attuare attraverso la redistribuzione e l’attenuazione delle disuguaglianze che il mercato libero inevitabilmente propone. Negli ultimi anni noi abbiamo assistito impotenti alla crescita delle medesime attraverso un fortissimo incremento delle disponibilità della popolazione più ricca della società.

I paesi che hanno mantenuto una forte attenzione ai processi redistributivi  sono quelli del nord Europa. Nel nostro Paese non è certamente avvenuta la correzione alla crescita delle disuguaglianze e quel che peggio è il comportamento delle confederazioni sindacali che, pur con diverse responsabilità, al di là di affermazioni di principio e di pura testimonianza non si sono seriamente impegnate.

Al di là del merito delle eventuali piattaforme da discutere è stata consapevolmente assente una vera battaglia culturale e politica sulla tassazione e su che cosa essa rappresenta per la società. Essa infatti da un lato è uno strumento indispensabile e dall’altro è un veicolo per raggiungere finalità che non attengono soltanto ai servizi in sè, ma che contribuiscono a formare, come la scuola e la sanità pubblica, omogeneità di consuetudini e di costumi.

Posti questi ragionamenti a premessa e fondamento, esaminiamo alcuni punti sui quali occorre aprire il dibattito e verificarne la congruità con la nostra cultura ed i nostri valori.

 

1.       Il debito è elevato; nell’attuale crisi tende a crescere sia il debito che il deficit e quindi non è possibile finanziare in deficit una riduzione del fisco. Occorre mantenere l’invarianza del gettito fiscale, modificando l’apporto dei singoli soggetti. Tra i nostri impegni c’è anche quello di pervenire al pareggio di bilancio, mentre per la riduzione del debito ci si affida del tutto alla crescita del Pil . Non è oggetto della nostra trattazione, però tutto diventa inutile se non si riprende il cammino della crescita. Ad esempio, noi dovremmo interrogarci sul perché il Piemonte cresce poco da tantissimi anni, perché con la decrescita del 2009 si ritornerà probabilmente al Pil procapite dei primi anni novanta, ma anche questo è un altro discorso. Ricordiamo infine che, prima dell’attuale crisi, dal ’94 al ’07 le tasse erano aumentate dal 40,2% al 43,3% del Pil mentre il debito decresceva dal 121% del ’94 al 113% del ’07.      

2.       Dobbiamo cercare di evitare di tassare l’attività produttiva per aumentare la sua capacità competitiva. La riduzione delle tasse per le imprese e del costo lavoro è di fatto la politica che si è sempre attuata, anche se con modalità diverse. Fino al 1992 c’era la continua svalutazione della lira a consentire incrementi di competitività; ora non essendo più possibile quella politica dall’introduzione dell’euro, si persegue l’altra. La strada maestra del recupero di produttività attraverso consistenti e continui investimenti è largamente disattesa.

 

3.       Nel nostro paese l’occupazione autonoma è molto elevata; essa raggiunge un quarto dell’occupazione totale a fronte del 12% della Gran Bretagna e della Germania e del 7%-9% degli Stati Uniti e della Francia. Ci sono certamente dei lavoratori autonomi che guadagnano poco, ma non sono sicuramente accettabili le loro scandalose dichiarazioni e tutto questo senza nulla concedere alla demagogia. Del resto, a maggior prova, va detto che il 73,4% di tutto il gettito del Irpef è dato dai lavoratori dipendenti.

 

4.       Da tutto questo si evince che è opportuno e giusto ridurre in modo significativo le tasse ai lavoratori dipendenti,ai pensionati ed alle famiglie, utilizzando questa manovra anche in funzione anticiclica per riavviare i consumi. Al fine di mantenere invariato il gettito fiscale, occorre recuperare molto sul lavoro autonomo, raccordare la tassazione delle rendite finanziarie alla media europea e pensare ad una forma di tassazione sui patrimoni che hanno visto notevolmente incrementato il loro valore negli ultimi anni. Infine del tutto incomprensibile resta l’abolizione delle tasse di successione nel contesto italiano.

 

5.       Lo stato infine spende mediamente ottocento miliardi di euro all’anno. Anche qui si ritiene che si possano operare dei tagli a partire dai trasferimenti alle imprese ed, in parte, alle regioni cresciuti a dismisura negli ultimi anni.

 

In questi giorni è apparsa sui giornali da un lato l’idea del patto fiscale di Bonanni, come sempre generico nella formulazione ed impreciso sulle cifre e dall’altro la riproposizione della famosa riforma delle due aliquote del 23% e del 33% questa si non generica e, se attuata, precisa e consistente, soprattutto per i ricchi palesemente favoriti anche se, come l’Agenzia dell’Entrate afferma, sono pochi, molto, molto pochi in Italia. Troppi pochi…ed anche questo è un problema da affrontare.
1 commento
  1. noname
    noname dice:

    Concordo con l’analisi, aggiungerei nella parte propositiva una particolare attenzione per la famiglia. La proposta governativa e’ l’ennesima presa per il naso verso il basso col solito metodo dello spot, spero che almeno questa volta ci sia una risposta negativa da parte di tutte le sigle sindacali. p.s. sperare non costa nulla !!! Roby M.

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