Più lavoro (?) ma buste paga giù
Savino Pezzotta così inizia sul suo blog – www.savinopezzotta.wordpress.com – il commento ai dati Istat sulla crescita occupazionale. <<Abituati a notizie negative non possiamo che accogliere con favore che l’economia italiana ha creato 530 posti di lavoro e che l’occupazione è cresciuta del 2,3 %. Questo è un fatto che ha fatto gridare ad alcuni e soprattutto ad esponenti del Governo che siamo di fronte a un nuovo “miracolo Economico”. Non mi adeguo alla posizione negativa che attribuisce a questa crescita all’ampliarsi dei posti di lavoro precari anche perché l’Istat afferma che si tratta nella maggioranza dei casi di posti a tempo indeterminato, una buona notizia....>>.
Ora, si tratta di verificare se nel 2023 si sono creati EFFETTIVAMENTE più di 500 mila NUOVI posti di lavoro stabili oppure se SONO IN BUONA PARTE nuovi contratti stabili di lavoro che prima erano precari o in nero, oppure erano lavoratori posti in CIG da oltre tre mesi, e dal 2021 classificati come inattivi con i nuovi criteri statistici. . Come pure serve conoscere quanti sono coloro che sono considerati occupati pur avendo svolto poche ore di lavoro (ricordiamo che per la statistica Istat basta aver dichiarato di aver lavorato più di un’ora nell’intervallo di tempo preso a riferimento).
Prosegue Pezzotta << Da vecchi sindacalisti non possiamo accontentarci dei dati che ci vengono forniti, ma partendo da questi dobbiamo capire cosa realmente ha innescato la crescita del lavoro a tempo indeterminato. L’entusiasmo propagandistico e autoelogiatorio del governo e delle forze politiche che lo sorreggono è, a mio parere, un poco fuori luogo, perché non mi sembra che sul terreno del lavoro abbia svolto un ruolo particolare e tanto meno che abbia prodotto una legislazione in materia. Su questo terreno la struttura in essere è rimasta pressoché invariata, fatta eccezione la conferma della riduzione del cuneo fiscale già introdotto dal Governo Draghi.
Mi si chiederà: “allora come si spiegano questi risultati positivi sull’occupazione?”
Una risposta chiara c’è ed è legata all’altra faccia della condizione del lavoro italiano, ovvero alla bassa o inesistente crescita dei salari italiani. Come ha ben documentato Piero Garibaldi, professore di Economia all’università di Torino sul nuovo e interessante mensile diretto da Tito Boeri “ECO”, spiegandoci nell’articolo “Il lato oscuro della miracolosa crescita del lavoro” che “Nel 2022 e nel 2023 l’indice armonizzato dei prezzi al consumo –quello più utilizzato per i contratti di lavoro- è aumentato in Italia dell’8,7% e del 5,9% : negli stessi due anni la crescita delle retribuzioni e stata di circa 3% per ogni anno. Mentre i prezzi aumentavano in un biennio del 15%, nello stesso periodo i salari nominali crescevano solo del 6%. Questo significa che i salari reali sono diminuiti di quasi il 9%. In altre parole, per le imprese il costo del lavoro in termini reali in Italia è diminuito di quasi il 10%….” per proseguire aprire l’allegato.
Questo ha fatto sì che il costo del lavoro sia diminuito e abbia reso vantaggioso per le imprese assumere nuovo personale. Inoltre, le diverse agevolazioni e bonus hanno reso possibili nuovi investimenti in macchinari che nel 2023 sono cresciuti, secondo l’Istat, del 3%.
La vera questione del futuro del lavoro italiano è legata alla nostra questione demografica e all’invecchiamento dei lavoratori e delle lavoratrici e questo è evidenziato dal fatto che il tasso di occupazione tra i 30 e i 69 anni è in aumento.
Va bene esprimere soddisfazione per l’andamento occupazionale e per la crescita del lavoro a tempo indeterminato, ma al tempo stesso va sottolineato con forza che chi sta pagando il prezzo dell’inflazione degli ultimi due anni sono le retribuzioni reali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Condivido le dichiarazioni di un sindacalista quando afferma che questa tendenza processi di qualificazione del lavoro, ma ricordato che il lavoro di qualità per realizzarsi occorre che si liberino le lavoratrici e i lavoratori dall’esigenza di essere impegnati a far quadrare i conti con la crescita dei prezzi, i costi che comporta la riduzione e il restringimento dei servizi sanitari e sociali, il costo in continuo aumento dell’istruzione dei figli e dell’assistenza alle persone anziane. L’abolizione del reddito di cittadinanza è stato un rifiuto di considerare il fatto che la maggior parte della povertà deriva dal nostro sistema economico che tende per sua natura ad escludere e non dalle volontà le possibilità soggettive delle persone.
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