Lo specchio di una società
“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. La frase è attribuita al filosofo parigino Voltaire (1694-1778), e trovano eco nel romanzo dostoevskiano Memorie da una casa di morti (1861-1862), dal momento che Fëdor Dostoevskij in galera c’era finito per davvero per alcuni anni. Voltaire, il grande pensatore illuminista, raramente viene ricordato per le sue invettive contro le carceri disumane, perché si tratta di un autore troppo scomodo nell’era del giustizialismo imperante in ogni parte del mondo con la crescita esponenziale di episodi di tortura, violenza privata, pestaggi, stupri, abuso di autorità, detenzioni arbitrarie. Le carceri, spesso trasformate in galere, sono lo specchio di una società!
Anche nelle carceri italiane? Nonostante l’art.27 della Costituzione? Sì anche per le nostre carceri vale il richiamo di Voltaire in quanto la disattesa del richiamo costituzionale è costante ed è esteso. La chiusura di una persona in carcere viene intesa dalla Costituzione come l’aspetto punitivo della pena, al quale deve associarsi un aspetto rieducativo: alla base di questo principio vi è la convinzione che il reato sia un errore che nasca da una disposizione individuale correggibile. Il testo costituzionale è inequivocabile aldilà di chi ripete, anche tra i parlamentari e ministri, “chiudiamoli e buttiamo la chiave..”. Queste sono i principi e le parole dell’art.27 “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”
Del sistema carcerario italiano se ne discute ad intermittenza: quando vengono emesse sentenze della Corta europea contro l’insostenibile condizione delle nostre carceri, quando si pubblicano le relazioni della Corte dei Conti, nei periodici rapporti dell’Associazione Antigone (www. Antigone.it) sorretta dal volontariato, sorta negli anni ’80.
Oppure quando si pubblicano reportage-inchiesta di bravi giornalisti, come nel recente articolo “ La lunga estate nelle carceri italiane. Il lavoro? Resta ancora un miraggio” di Fulvio Fulvi pubblicato il 7 agosto 2023 su L’Avvenire, che qui riproduciamo. << Solo il 35% dei detenuti è inserito in un percorso lavorativo nei penitenziari, stritolati da sovraffollamento e carenze di organici, due emergenze che in agosto si aggravano. Continuano, dietro le sbarre, i suicidi, le aggressioni agli agenti, le rivolte, gli scioperi della fame. Le carceri sovraffollate, insalubri e quindi “insicure” per chi ci abita, sono un’emergenza nel nostro Paese. E lo diventano ancora di più nel mese di agosto, quando nelle celle si scoppia dal caldo, il personale di sorveglianza si riduce a causa delle ferie estive e vengono sospese le attività ludiche e formative che nel resto dell’anno aiutano i reclusi ad allontanarsi dall’inedia e dalla solitudine, potenziali malattie mortali.
Sovraffollamento e organici insufficienti: due questioni che si trascinano da anni ma che rimangono inevase nonostante gli allarmi e le continue denunce di chi è impegnato nella tutela dei diritti delle persone private della libertà e dei lavoratori del settore. Perché il carcere, in Italia, è un “pianeta dimenticato”.
Eppure i numeri parlano chiaro: alla data del 31 luglio, nei 189 istituti di pena per adulti presenti sul territorio nazionale, i detenuti erano 57.749 (2.510 donne e 18.044 stranieri), cioè oltre 10mila in più rispetto alla capienza regolamentare, con un tasso medio di sovraffollamento pari al 119%. E fa riflettere anche che tra quelli costretti a vivere “dentro”, solo 42.918 devono scontare una pena definitiva mentre il resto è in attesa di un primo giudizio (7.946), di una sentenza di appello o dell’esito di un ricorso (5.897). Risulta largamente insufficiente, poi, l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, semilibertà) che invece consentirebbero uno sfoltimento delle presenze all’interno delle strutture.
Vite inafferrabili, quelle dei detenuti, per i quali il tempo diventa, nella maggior parte dei casi, non un’occasione di redenzione umana e di reinserimento sociale come dovrebbe essere in base all’art. 27 della Costituzione, ma un pesante macigno che ne schiaccia l’anima e qualche volta anche il corpo: i suicidi, che nel 2022 sono stati 85 – un tragico primato – e 41 dal 1° gennaio di quest’anno a oggi, sono la conseguenza di una condizione esistenziale divenuta impossibile.
Se le morti per mano propria aumentano (e si verificano soprattutto nei primi sei mesi di detenzione e durante l’estate) è anche perché chi è rinchiuso in una cella trascorre le giornate solo in attesa dell’ora d’aria e dei pasti, guarda la tv o fuma una sigaretta e non è impegnato in altre attività.
Solo il 31,6% dei carcerati, infatti, è iscritto a un corso scolastico mentre il 35,2% lavora, dentro oppure in regime di semilibertà, per l’Amministrazione penitenziaria o alle dipendenze di un’impresa esterna. È invece quasi del tutto assente la formazione professionale, che riguarda il 4 %.
«Il tempo sprecato dietro le sbarre distrugge, perde di significato, perché sono altri a decidere per te, quando devi mangiare, fare la doccia, uscire in cortile, telefonare ai parenti» spiega Carla Lunghi, docente di Sociologia dei processi culturali all’università Cattolica di Milano la quale, oltre a studiare il “fenomeno carcere”, insegna italiano come volontaria nella Casa circondariale di San Vittore. «Il rischio è che queste persone, quando escono, siano peggiori di prima, larve umane, incattivite e incapaci di decidere anche le minime cose quotidiane, come comprare il biglietto del tram o pagare le tasse. Figuriamoci trovare un lavoro…» commenta Lunghi.
«È necessario invece che il carcere come istituzione si assuma la responsabilità di educare – conclude – e di creare nuovi cittadini anche attraverso esperienze di lavoro che abbiano spazi di operatività e una retribuzione soddisfacente per favorire l’autostima o un’idea positiva di sé».
«D’estate, i ritardi e le emergenze, presenti in un carcere anche quando tutto funziona, rischiano di diventare esplosivi perché fanno crescere l’insofferenza di chi vi è rinchiuso, le ristrettezze quotidiane diventano più pesanti – avverte Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – e aumenta l’incapacità di gestire il tempo vuoto, con effetti psicologici spesso devastanti».
«Inoltre, a dominare quasi sempre nelle decisioni di chi gestisce le strutture – spiega Palma – è l’applicazione pedissequa della “norma neutra” rispetto, per esempio, all’esigenza di una vicinanza accogliente, di un incontro in più in parlatorio o di una telefonata». Nascono anche da qui gli atti di autolesionismo e i suicidi.
E non va dimenticata, poi, “l’altra parte della “barricata”, anche se così non dovrebbe essere: gli agenti di polizia penitenziaria. Quelli in servizio a tutt’oggi nelle carceri italiane sono 32. 260. Quasi un agente ogni due detenuti. E con un’età media alta. «Ne servirebbero almeno 4.364 in più per far fronte alle esigenze di sicurezza interna e all’organizzazione delle attività quotidiane dei reclusi previste dal regolamento» sostiene Massimo Vespia, segretario generale della Fns-Cisl. E molto spesso i sorveglianti vengono aggrediti e minacciati, anche con violenza da detenuti scalmanati o con gravi problemi psichici. «Ci sono colleghi che ogni giorno entrano da soli in sezioni con cento detenuti, spesso con tutte le celle aperte» spiega Giovan Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo della categoria. Cosa fare, allora? «Ministero della Giustizia e Dap devono provvedere senza più rinvii alla carenza degli organici – chiede Vespia -, a rinnovare e ammodernare gli istituti penitenziari vecchi e inadeguati (alcuni risalgono all’epoca borbonica), a creare spazi per il personale e ausili tecnologici per migliorarne il servizio». https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-lunga-estate-nelle-carceri-italiane-il-lavoro-resta-ancora-un-miraggio Vedi anche articolo correlato https://www.avvenire.it/attualita/pagine/carceri-otto-suicidi-dall-inizio-dell-anno
Pierre Carniti ha rappresentato l’idea e un progetto di sindacato per rendere protagonisti e responsabili i lavoratori con contrattazione collettiva – per i contratti integrativi e nazionali di categoria, per una strategia confederale – per un processo di cambiamento della società, che non si fermava dentro i cancelli delle fabbriche. Non ha mai smesso la riflessione sul sindacato confederale ripetendo che “..Circoscrivendo il compito e il ruolo del sindacato ai salari e alle condizioni di lavoro, il sindacalismo confederale perde gran parte della sua ragione d’essere…e non riuscirà neppure a difendere il potere d’acquisto reale dei salari e delle pensioni”. Il valore della confederalità sta nel porsi il problema della rappresentanza degli esclusi, della frantumazione sociale e del non lavoro, dell’eguaglianza e della giustizia sociale, del riscatto con e del lavoro. Dell’inveramento dei principi basilari della Costituzione. Il problema drammatico delle carceri italiane è uno problema che riguarda la confederalità, oltre i contratti di categoria.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!