Il futuro della contrattazione
Riduzione di orario, motore del futuro della contrattazione? Raffaele Morese, nell’editoriale di Nuovi-Lavori, ne è convinto riprendendo le idee – e contestualizzandole – del tempo “Lavorare meno, lavorare tutti“. Per diventare una scelta strategica delle categorie e delle confederazioni è necessaria una profonda riflessione critica sulla piattaforma unitaria di questi anni sulle pensioni che -tra l’altro – è naufragata nel confronto con il governo di Giorgia Meloni. Anticipare la pensione? Insistere con le Cig a scivolo? Oppure puntare a lavorare meno nella giornata o nella settimana? Una scelta che deve tenere in debito conto almeno due riferimenti epocali: il primo, le macchine digitali svolgeranno sempre più operazioni ora eseguite da lavoratori/trici; il secondo, l’inverno demografico proietta al 2050, per il nostro paese, un rapporto critico per il sistema previdenziale, il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. Per il sindacato tutto e in particolare per quello confederale è tempo di una svolta sia per nuove strategie sia per l’indispensabile uità sindacale.
Di seguito l’articolo di Raffaele Morese. << Per me, che 45 anni fa, assieme a Nicola Cacace e Luigi Frey scrivemmo un libro intitolato “lavorare meno, per lavorare tutti” (Edizioni Lavoro 1978) è una bella soddisfazione che si riapra il capitolo della riduzione del tempo di lavoro. In questo lungo periodo di tempo, carsicamente se ne è riparlato. Qui e là si è cercato di abbattere il muro delle 40 ore settimanali.
Ma in questo campo, non siamo mai stati i primi della classe in Europa. La cultura industrialista e più specificamente fordista che ha coinvolto l’attenzione degli ambienti intellettuali progressisti e anche le forze sociali e politiche centrate sulla realtà lavoratrice, ha sempre preferito dedicarsi alla libertà delle persone “nel” lavoro (qualifiche, pause, formazione, ruoli), piuttosto che “dal” lavoro ( meno presenza sul posto del lavoro anche per aprire spazi a nuovi occupati).
Erano soprattutto i centri cattolici attenti all’egualitarismo e al solidarismo che alzavano la voce sulla redistribuzione del tempo di lavoro, sostenendo a buona ragione, che alla tecnologia non si potesse mettere il bavaglio e che questa di certo avrebbe causato l’espulsione di quote significative di lavoratori dal ciclo produttivo. Una voce sempre minoritaria, anche all’interno del mondo cattolico, più propenso all’assistenzialismo che ad una interpretazione “liberal” dell’evoluzione dei sistemi produttivi. Così fioccarono più i prepensionamenti che i contratti di solidarietà, più gli straordinari a gogò che i part-time.
Siamo in una fase del tutto nuova. Le schematizzazioni del passato sono inservibili. Ho pesato molto la perdita di importanza delle ideologie. Ne è plastica testimonianza la stessa riduzione dell’orario di lavoro. Oggi, più che alla crescita dell’occupazione, mira a rendere più soddisfacente l’equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di vita. La realtà del lavoro è sottoposta ad una progressiva ridefinizione professionale, organizzativa, motivazionale e generazionale che apre a scenari ancora da comprendere fino in fondo e da stabilizzare. Se a questo si aggiungono le incertezze sulle future caratteristiche della globalizzazione e l’irruzione delle nuove tecnologie e dell’ Intelligenza Artificiale, il ridisegno dei cicli del valore dei prodotti e le forme organizzative per realizzarli diventano esiziali per la sopravvivenza delle imprese.
La lettura giornalistica di alcuni recenti accordi sindacali di settori e aziende significativi – dei quali si sottolinea prevalentemente la buona acquisizione salariale e l’istituzione (parziale o totale, ma sempre strutturale) della settimana di 4 giorni lavorativi – non coglie la complessità del mutamento qualitativo delle materie contrattate. I migliori di questi accordi sono proprio quelli che intrecciano qualità e quantità del salario, tempi di lavoro tarati sulle esigenze delle aziende ma anche dei lavoratori, organizzazioni lavorative cooperative e con dinamiche professionali sostenute da formazione continua e da scambi generazionali, accresciuta attenzione al benessere delle persone come precondizione per un benessere collettivo. Il tutto affidato non soltanto al management ma ad una governance sempre più strutturata che affida oneri e onori a tutti i soggetti della rappresentanza aziendale. Le aziende sono vissute progressivamente in quanto comunità e non teatri di conflitti d’interessi, come nel passato. E anche la contrattazione lo certifica.
Le conquiste nuove non avvengono mai di botto. Si accumulano nei punti di maggiore praticabilità, per poi estenderle, attraverso i contratti nazionali. Varrà anche per la riduzione dell’orario di lavoro, per la valorizzazione delle competenze, per le tutele sociali integrative di un welfare pubblico sempre più azzoppato dalle convenienze del mercato e dalle disfunzioni amministrative. L’esigenza di una generalizzazione è giunta anche negli Stati Uniti, culla del sindacalismo aziendale, fino a diventare “up to date” (leggere l’intervista al Presidente della UAW Shawn Fain pubblicata in questo numero).
Il processo sarà tanto più accelerato, quanto maggiore sarà il radicamento della cultura della partecipazione tra management e sindacato. Il luogo di lavoro privato o pubblico diventerà luogo di esercizio di responsabilità condivise. Tutti gli accordi che vanno per la maggiora in questi giorni sono zeppi di commissioni paritetiche e procedure di regolamentazione di realtà considerate mutevoli. Questo percorso sarà ancora più accelerato, non tanto per effetto dei mutamenti tecnologici, ma se si riuscirà a realizzare un crescente tasso di unità della rappresentanza dei lavoratori.
Non a caso i rinnovi innovativi sono avvenuti senza tanti scioperi e con la firma di tutti e tre i sindacati maggiormente rappresentativi. Ma se non si fermerà la conflittualità di vertice delle confederazioni, prima o poi a livello di base si allargherà il fenomeno dell’autonomizzazione, o si andrà alla frattura. Nel primo caso, lo sbocco è la corporativizzazione della rappresentanza (pur rimanendo in un ambito confederale, ma sempre più sbiadito e sempre più marcato tra aree forti e aree deboli del mercato del lavoro); nella seconda ipotesi è quasi certo che assisteremo all’affaticamento se non all’arretramento delle conquiste anche a livello di posto di lavoro. Comunque sarebbe un esito fantozziano di un processo che invece si profila di grande interesse >>.
https://nuovi-lavori.it/index.php/non-di-sola-riduzione-di-orario-e-il-futuro-della-contrattazione/
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