Gocce di caffè

Mentre in Italia Via Po 21 pensa alla campagna elettorale, con il dottor Sbarra dell’Anas che cerca amicizie fra i probabili vincitori tramite la mediazione dell’Ugl (e mentre nonna Anna Maria spera in un lavoretto part time da parlamentare della Repubblica per integrare la “magra” pensione), nel resto del mondo accadono cose sindacalmente interessanti. Così inzia l’interessante articolo pubblicato su www.il9marzo.it il 12 Agosto.

< Ad esempio, dall’America arrivano notizie sulla campagna organizzativa nella catena Starbucks, il più grande marchio del settore della caffetteria, con scioperi attualmente in corso in 17 stati americani per avere il riconoscimento del sindacato, e quindi la possibilità di un contratto collettivo. Cosa che la proprietà e la dirigenza della catena respinge, nascondendosi dietro allo pseudoargomento partecipativo, secondo cui di sindacato non c’è bisogno dove i lavoratori non sono dipendenti ma partner del datore di lavoro. Cosa che chi lavora nei bar Starbucks non respinge in linea di principio, ma accetta a condizione di poter agire collettivamente, cioè sindacalmente, come dice il bel documento che presenta la loro campagna.

Si tratta di una tendenza analoga ma diversa rispetto alle campagne in corso per la sindacalizzazione dei magazzini Amazon, perché in quel caso la battaglia avviene in alcuni grandi luoghi dove si concentra una gran quantità di lavoro umano integrato con i computer, che sorgono alle periferie delle città ed hanno preso il posto della grande fabbrica fordista dalla qualle hanno ereditato la vocazione all’organizzazione scientifica del lavoro, esasperata dagli algoritmi; le caffetterie Starbucks sono invece una realtà dispersa e pulviscolare, e quindi la lotta per il sindacato non si concentra in alcune grandi realtà ma deve essere svolta attivando qualcuno fra le poche decine di dipendenti (“partner” nel vocabolario aziendale) di ciascun bar perché convinca colleghe e colleghi a sfidare le prassi aziendali antisindacali (rischio del licenziamento compreso) esponendosi nelle lunghe campagne richieste dalla farraginosa legislazione sindacale americana.

In Italia la cosa sarebbe considerata una perdita di tempo: invece di inseguire decine di migliaia di piccole realtà per attivare un pugno di militanti di base e provocare rivendicazioni ed eventuali scioperi dall’esito non assicurato, meglio offrire a chi lavora alcuni servizi di assistenza (utili anche all’imprese) e riceverne significative entrate. Poco personale, poca spesa, poche rotture di scatole per sé e le controparti. E grandi introiti.

Invece la Starbucks workers’ union, organizzatasi con il sostegno del grande sindacato dei servizi Seiu (e forte grazie a questo sostegno di una cassa di solidarietà da un milione di dollari) sta lavorando dalla base e non dall’alto, fra chi lavora e non cercando il rapporto con chi comanda, nelle imprese o al governo. E da dicembre sono state circa 200 le caffetterie dove è stato vinto il referendum necessario per il riconoscimento.

Certo, dirà qualche cinico fornitore di servizi sindacali attualmente in ferie, in Italia con una convenzione si fanno iscrivere, più o meno convintamente, decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, mentre una votazione per un bar in America costa soldi e fatica per coinvolgere venti o trenta persone alla volta. Poche gocce in un mare desindacalizzato, visto che le caffetterie Starbucks sono decine di migliaia.

Sì, ma almeno sono gocce di caffé, che tengono sveglio l’ideale del sindacato. Mentre da noi l’abbondanza di risorse facilmente accessibili sono come un’overdose di camomilla per organizzazioni grandi, grosse e sonnolente. >

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