Cina e Giappone adesso lavorano a un cordone sanitario anti eurodollaro. Pechino e Tokyo, anche per evitare il contagio, ora scambieranno nella loro valuta senza più usare il biglietto verde.
“Fuga dal dollaro”. Con questo titolo lo Yomiuri Shimbun sintetizza il senso dell’accordo di Natale tra Cina e Giappone, ovvero la seconda e la terza economia del pianeta. D’ora in poi, infatti, Tokyo e Pechino si scambieranno merci, servizi e finanza senza passare per la mediazione (e i costi) della valuta americana: un fiume di capitali, circa 340 miliardi di dollari, cresciuto di quattro volte negli ultimi dieci anni. Inoltre, il Giappone investirà parte delle sue riserve valutarie, seconde al mondo solo a quelle cinesi (1.300 miliardi di dollari contro 3.200) in titoli di stato di Pechino, già compratore straniero numero uno dei Bot di Tokyo. Scetticismo sul biglietto verde, certo, ma anche un modo per non pagare troppo i costi di un’eventuale défaillance dell’euro.
Di fronte alla crisi del Vecchio continente, primo sbocco commerciale per Tokyo e Pechino, i giganti d’Oriente hanno preferito superare le loro rivalità storiche piuttosto che aumentare gli investimenti nei Bonos spagnoli, negli Oat francesi o, soprattutto, nei Btp italiani, fino a pochi mesi ben comprati dai fondi pensione giapponesi. Con gli acquisti da parte di Tokyo delle obbligazioni denominate in yuan, la valuta di Pechino – che ieri è salita al massimo da 18 anni rispetto al dollaro – fa un grande passo in avanti verso il rango di moneta di riserva. Inoltre, a conferma del valore strategico delle intese raggiunte dal premier premier Yoshihiko Noda con Wen Jiabao e Hu Jintao nell’anniversario della ripresa, nel 1971, dei rapporti mai facili tra le due potenze, è stata decisa la nascita di un fondo di 12 miliardi di yen per investimenti comuni a protezione dell’ambiente.
Qualcosa di più, insomma, degli accordi tattici raggiunti in questi anni tra Tokyo e il Dragone. Le necessità politiche, talvolta, hanno la meglio sulle diffidenze comuni. La leadership di Pechino è consapevole che la crisi dell’occidente minaccia gli equilibri della sua economia, fortemente orientata all’export, in un momento delicato in cui si moltiplicano le proteste, sindacali e non. Noda, invece, è alle prese con il risanamento della finanza pubblica, prima che il debito sovrano più elevato del mondo (il 200 per cento del pil) esploda.
© – FOGLIO QUOTIDIANO 27 dicembre 2011
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