Un sistema sociale senza dialettica collettiva
Scenari – Solo la tecnologia avanzata di comunicazione ha permesso ai cittadini di sentirsi parte del mondo circostante. Il rapporto in remoto ha sostituito la presenza. Lontananza – La riduzione quasi spasmodica dei contatti fisici limita in ciascuno di noi la relazione con l’altro. Solitudine – Si rischia di creare una cultura implicitamente narcotizzante che non ci unisce e ci rende più incerti
“Un sistema sociale senza dialettica collettiva”, di Giuseppe De Rita.
Forse non è inutile, anche se è banale, ricordare che per tutti coloro che l’hanno studiato e gestito, lo sviluppo di un popolo è un fenomeno intimamente dialettico, dove si intrecciano opinioni, discussioni, rabbie, competizioni, conflitti. E non è una verità solo astratta: basta ricordare gli anni 70, un decennio di massima trasformazione economica (dall’esplosione dell’economia sommersa alla moltiplicazione delle piccole imprese, fino all’affermazione del grande ciclo del made in Italy), ma anche un decennio di grande dialettica sociale e di forti conflitti collettivi (dagli autunni caldi al terrorismo). Chi ha vissuto quegli anni non può non rilevare che stiamo diventando un sistema sociale senza dialettica collettiva, tanto sono deboli o inesistenti le tracce dello scontro politico, del confronto ideologico, delle lotte di classe, della volontà di ridurre le diseguaglianze sociali. Tutto sembra sia impantanato nel grande lago di una mediocre cetomedizzazione e più ancora nel carattere molecolare e soggettivistico della società, portato più a seguire speranze di innovazione tecnologica che la durezza del confronto sociale.
A queste ragioni della caduta della dimensione dialettica e conflittuale della nostra dinamica sociale ha aggiunto forza quel che è avvenuto negli ultimi mesi, segnati da un pieno isolamento individuale (neppure ima messa o un funerale, figuriamoci un comizio o un corteo) e con pochissime occasioni di confronto collettivo.
Solo la tecnologia avanzata di comunicazione ha permesso ai cittadini di sentirsi parte del mondo circostante. Il rapporto «in remoto» ha largamente sostituito il rapporto «in presenza», con la letterale esplosione della smart Tv (con la quale ci colleghiamo al «mondo» dal divano di casa nostra) e dello smart-phone (con il quale possiamo essere in connessione in movimento e dappertutto). Un paradiso dei connessi (a parte alcuni infernali messaggi insultanti sui social), dove abbiamo consumato un grande e variegato intrattenimento; dove abbiamo gestito ogni tipo d’acquisto di beni e servizi; dove abbiamo potuto lavorare in solitudine e a casa, in forme diverse di smart- working; dove i nostri figli hanno potuto avere lezioni a distanza; dove qualcuno in famiglia ha continuato a fare yoga o giocare a bridge senza pericoli di contaminazione.
L’imperativo ampiamente condiviso è stato quello di evitare i contatti fisici e attestarci sulle connessioni virtuali: un imperativo al tempo stesso dei singoli come del governo di sistema. Ma la riduzione quasi spasmodica dei contatti fisici riduce in ciascuno di noi il rapporto con l’altro, la relazione interpersonale, la vita in comune, i contrasti e i conflitti interpersonali. E la tendenza generale, specialmente politica, sembra privilegiare sempre più le connessioni virtuali, a scapito della dialettica sociale.
Ci stiamo ubriacando di didattica a distanza, trascurando ogni rapporto fisico e personale (magari critico o conflittuale) fra docente e allievi; ci stiamo ubriacando di smart-working, trascurando il fatto che il «pacco» delle pratiche da smaltire a domicilio non può attivare un controllo, anche dialettico, fra chi lo imposta e chi lo esegue; ci stiamo ubriacando di incontri, riunioni e convegni fatti in streaming o su Zoom, dove si succedono relazioni e relatori senza che nessuno possa interloquire, dissentire, al limite fischiare; ed alla fine ci stiamo ubriacando, decreto dopo decreto, su un primato del virtuale che aggiri la realtà della vita normale ed eviti ogni occasione di dialogo, di confronto, di conflitto sociale. Le aule scolastiche, i corridoi e le stanze ministeriali, le palestre ed i centri sportivi, i convegni culturali e i congressi scientifici, stanno diventando solo luoghi di assembramento e quindi potenziali focolai epidemici.
Ma tutto ciò (malgrado le indulgenze retoriche) rischia di creare una cultura collettiva senza dialettica e implicitamente narcotizzante, che alla fine non ci unisce, anzi ci rende ogni giorno più isolati: soli, più incerti, più impauriti, più in cerca di sicurezza, più dipendenti dal fato e più ligi al potere. Forse esagero, ma mi sembra di vedere spesso tali sentimenti negli occhi dei miei concittadini, l’unico tratto somatico non nascosto dalle obbligatorie mascherine.
Quasi che essi aspettino non una vigorosa uscita dal tunnel della crisi, ma il desiderio di chiudere gli occhi e attendere che passi il periodo nero, quasi un inconscio desiderio di andare in letargo come in inverno vanno gli animali e le piante. Evento naturale e forse sostanzialmente coltivato, se si pensa a quanti la mattina hanno poca voglia di uscire dal letto (tanta formazione e tanto lavoro si fanno da casa); e a quanti cominciano a pensare a qualche forma di reddito di cittadinanza, per sé e i propri figli. La ripresa può attendere, lo sviluppo possiamo dimenticarcelo, qualcuno provvederà al bonus da letargo. Dal Corriere della Sera 30-10-2020
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