Piero Mulassano è stato un protagonista sociale e sindacale. Ci ha lasciato a 73 anni. Era un personaggio. A None è stato un protagonista controverso e discusso della vita sociale e pubblica a cavallo fra gli anni Cinquanta e Settanta. Era cresciuto nell’Azione Cattolica che allora era l’unico punto di incontro per i giovani e le famiglie. In tutte le sue espressioni parrocchiali, associative e politiche, il mondo cattolico contendeva la guida della comunità locale a tutti gli altri (i laici e gli “indipendenti” del Campanile di matrice liberale). La gara era vivace, ma i due mondi in competizione avevano in comune il mal celato desiderio di dirigere la baracca apparendo il meno possibile. Lui non era con i secondi, ma tra i primi era guardato con sospetto per via del suo impegno sindacale nella Fim-Cisl. Era un operaio Fiat. Come tutti i giovani cislini di quegli anni, era influenzato dal messaggio kennedyano sulle nuove frontiere della lotta alla povertà e le aperture del Concilio lo incoraggiavano. Preferì parlare invece di comodamente tacere. Pagò cara quella sua strana smania di gettare un ponte verso l’integrazione dei meridionali che arrivavano a ondate, richiamati dal miracolo economico delle automobili e degli elettrodomestici.
Gli venne l’insana idea di capeggiare alle elezioni comunali del 1965 una lista di soli meridionali. Non l’avesse mai fatto. Scudo Crociato e Campanile non si accontentarono della sua sonora sconfitta, ma negli anni successivi lo sommersero di derisione. Fu accusato di fare politica dove fare politica non era considerato un normale atto di libertà, ma una colpevole rottura dell’armonia sociale, una violazione clamorosa e provocatoria di un codice non scritto e proprio perciò rigorosamente rispettato da tutti.
Il suo centro ricreativo e culturale di via Roma (prima Croce Bianca, poi Turin Club e ora l’Osteria) attirò i giovani a frotte per qualche anno e fu persino indicato alle attenzioni delle forze dell’ordine perchè vigilassero contro l’intrusione di presenze sindacali, socialiste e comuniste. Poi arrivò il vento della contestazione. Invece di negare il nostro impegno politico, noi lo rivendicammo a viso aperto spazzando via tutti i predicozzi che ci venivano ammanniti sull’obiettività, l’interclassismo, l’imparzialità e via inzuccherando i conflitti sociali.
Quanto all’arrivo dei meridionali, noi indigeni – credenti o non credenti che fossimo – non gradivamo che aspirassero così presto a conquistare addirittura una rappresentanza in Comune. Dovevano chiedere il permesso alle élites locali che li avrebbero accolti sotto le loro ali protettrici e li avrebbero presentati come fiore all’occhiello e prova di tolleranza, apertura e liberalità. I meridionali dovevano pensare a lavorare nell’industria e nell’edilizia. Dovevano pagare l’affitto delle case che trovavano (di solito le peggiori). Dovevano ringraziare per l’accoglienza.
Ora, tutto è cambiato. Per fortuna abbiamo altri problemi. Non altrettanto semplici, vedo. Ma dobbiamo riconoscere che quella lunga marcia sempre inconclusa sulla strada dell’uguaglianza vide anche il contributo generoso di Piero Mulassano. Non guadagnò nulla dalle sue scelte religiose, sindacali e politiche. L’ultima parte della sua esistenza fu ingiustamente isolata e tormentata.
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