PRECARIETA’ ANZICHE’ INNOVAZIONE – N.Cacace – politica & economia

Che l´Italia avesse da anni salari di fame non lo apprendiamo oggi dai dati Eurostat, da cui risulta che i nostri operai hanno salari inferiori a tutti i maggiori paesi dell´eurozona, Spagna, Cipro e Grecia inclusi (i dati sono del 2009 ma da allora la situazione è peggiorata). Quello che non tutti sanno è che questa marcia all´indietro dei nostri salari è iniziata negli anni Ottanta in parallelo con la marcia delle leggi di flessibilizzazione del lavoro, dalla "cosiddetta" legge Biagi in poi. Il professor Biagi raccomandava di accompagnare le proposte di flessibilizzazione del lavoro con misure di "sicurezza" del salario, quella Flexsecurity di cui molti parlano a vanvera, cosa mai avvenuta.

La crisi di competitività del sistema Italia è iniziata negli anni Ottanta, come può vedersi dal calo continuo del Pil, +3,8% annuo nel decennio ´70, + 2,4% annuo nel decennio ´80, +1,6% annuo nel decennio ´90, +0,2% annuo nel decennio 2000-2010 di stagnazione. L´occupazione Istat dei posti di lavoro non solo non si è ridotta ma è cresciuta per frammentazione, dell´1,5% annuo nel decennio ´80, del 3% annuo nel decennio ´90 e del 2,6% annuo nel decennio 2000-2010. In conseguenza della frammentazione del lavoro –due precari al posto di un lavoratore a tempo pieno- nel decennio Novanta e nel decennio 2000-2010 la produttività, per la prima volta nella storia d´Italia, è diventata negativa rispettivamente del -1,4% annuo e del -2% annuo. Un primato negativo, comune a nessun Paese industriale che ha prodotto impoverimento dei salari e del Pil, con effetti dirompenti sulla crisi italiana che è anzitutto crisi di domanda.

In nessun Paese la domanda interna ha contribuito così poco al Pil come in Italia. Noi viviamo nella società globale e della conoscenza e sinché i salari del mondo non si avvicineranno e finirà il vantaggio competitivo dei Paesi con manodopera a basso costo, un Paese può rimanere competitivo ad una sola condizione, che produca beni e servizi di qualità, cioè di valore commisurato al suo costo lavoro. Tutti i Paesi, tranne l´Italia, hanno capito da tempo quel che c´era da fare e si sono mossi nelle direzioni obbligate: più fondi all´innovazione e alla ricerca, più istruzione per tutti, più formazione continua, cioè miglioramento della qualità, cioè dell´uomo che la produce. L´Italia ha puntando invece sulla precarietà dell´impiego e sul basso costo lavoro, purtroppo con la complicità attiva e passiva di troppi industriali, per ignoranza o nella illusione di lucrare qualche vantaggio. Come fanno anche oggi spingendo come un ariete l´articolo 18 bisognoso di manutenzione ma non problema centrale, invece di spingere sulle riforme necessarie al Lavoro e a loro stessi, qualità delle produzioni e quindi del lavoro.

Dove i Paesi industriali hanno puntato per fare qualità da vendere? Soprattutto sui servizi, che pesano molto sull´occupazione, 81% negli Stati Uniti e in Olanda, 80% in Gran Bretagna, 78% in Svezia, 77% in Francia, 72% in Spagna, 70% in Giappone, 69% in Germania e 67% in Italia. Da anni questi Paesi hanno migliorato la competitività difendendo quei pezzi di industria di qualità in cui erano bravi, come hanno fatto Germania e Giappone con auto, elettronica e chimica fine ma soprattutto puntando sui Servizi di qualità che cinesi e indiani non sono ancora capaci di fare. Noi siamo andati avanti senza alcuna strategia soprattutto nei servizi dove abbiamo i peggiori indici di competitività come si vede dal passivo crescente della bilancia con l´estero e dalla difficoltà di impiegare giovani e donne e senza salari di fame.

Nicola Cacace

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