<Questa nostra società è un sistema che, superata da tempo l’èra del benessere, produce (fra le altre cose) una quantità esponenziale di violenza.>. Così inizia l’articolo del drammaturgo Fabrizio Sinisi che, sul Domani, propone due modi per leggere l’efferato omicidio di Alika Ogorchukwu, a Civitanova Marche, per opera di  Filippo Ferlazzo.

<Ci sono due modi di leggere l’omicidio di Civitanova Marche. Il primo: una brutalità incommentabile, che non ha colore né ideologia né tantomeno partito-bianco o nero non importa, la violenza è terribile sempre e comunque, e se nessuno è intervenuto è perché aveva paura, e !a paura per quanto spiacevole è un umanissimo fardello, va accettata e capita, siamo tutti fragile cosa, non si può incolpare nessuno di aver avuto paura. Chiameremo questa lettura: I’Ipotesi della natura umana

Esiste però un’altra ipotesi, secondo cui in questo evento – tanto nella brutale aggressione quanto nell’omissione di soccorso – ci sia qualcosa di sotterraneamente politico. Certo, vedere una matrice oscuramente razzista nella dinamica dell’omicidio di Alika non è un’ipotesi campata in aria da qualche malevolo: la comunità nigeriana di Civitanova ha deciso di manifestare pubblicamente, e se l’ha fatto è perché ha sentito l’episodio come un segnale oscuramente chiaro. (…) > per proseguire aprire l’allegato

Michela Marzano in “La realtà confusa con la fiction…”, su La Stampa, dopo aver ricostruito i fatti si pone queste domande: < (…)  Perché nessuno di loro è intervenuto? Perché il primo impulso è stato quello di filmare l’aggressione invece che bloccare l’assassino? Cosa avrei fatto io se mi fossi trovata a Civitanova Marche? Sarei intervenuta? Avrei urlato? Avrei chiamato aiuto oppure anch’io mi sarei limitata ad accendere la videocamera del mio smartphone? Che cosa scatta quando si assiste ad atti di violenza estrema? Si prova pena oppure si resta indifferenti? (…) >. Termina così < E se è vero che il coraggio non lo si compra un tanto al chilo, è anche vero che il fatto che tanta gente possa assistere a un omicidio con un cellulare in mano non può lasciare nessuno del tutto indifferente: in che tipo di mondo vogliamo che crescano i nostri figli?>per leggere l’articolo aprire l’allegato.

Gianni Riotta in “Alika, il nostro Floyd” su la Repubblica, scrive. < Intervenire, con coraggio tempestivo, a contrasto di un atto di violenza è difficile. Educazione, timidezza, senso di protezione per noi stessi o per chi è con noi frenano davanti a un aggressore, intento a far male. I commenti deprecano poi, non senza ragioni, l’inerzia dei passanti vicini a episodi criminali, ma l’animo del Buon Samaritano, che Willy Monteiro (ndr – il giovane massacrato dai fratelli Bianchi condannati all’ergastolo) aveva, è raro. Malgrado il rischio minimo, nessuno lo fa, e prima di scuotere la testa, ciascuno di noi deve chiedersi in coscienza “E io? L’avrei fatto io?”. Dalla dinamica dell’azione è evidente che, distolto dal raptus razzista, Filippo Ferlazzo – che ora i difensori indicano come “invalido”, provando a rifugiarsi in tribunale nell’infermità mentale – si poteva fermare nella ferocia contro un uomo che le testimonianze giurano mai pericoloso. (…) >  Vedi allegato

“Omicidio Alika: il vero colpevole è la viltà”: Una società pavida, senza coraggio, intrappolata nella paura e dall’atavico consiglio di “farsi i fatti propri”. La radice dell’omicidio di Alika Ogorchukwu, il trentanovenne nigeriano ucciso a Civitanova Marche, è racchiuso in questo assunto. (…) Così inizia di Menandro su   https://www.laportadivetro.org/omicidio-ogorchukwu-il-verocolpevole-e-la-vilta/

Michele Serra inizia la sua Amaca “Aspettando il pettirosso” con questa riflessione < Il mendicante ammazzato di botte da un energumeno non è un segno dei nuovi tempi. Al contrario, è segno che il nostro tempo ristagna, e tutto ciò che ristagna si guasta e marcisce. Negli anni Ottanta i due teenager nazisti di Verona che si facevano chiamare Ludwig bruciavano vivi i senzatetto e i drogati, una maniera spiccia per arianizzare il mondo. “Gli incendiarono il letto sulla strada di Trento, riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento”, così la raccontò De André nella sua terribile “Domenica delle salme” (1990), ripreso da Maurizio Maggiani nel suo bel romanzo “Il coraggio del pettirosso”(…) e conclude con “Ma non abbiamo bisogno di eroi, abbiamo bisogno di pettirossi. Non di retorica, ma di mani forti che sappiano disarmare>. Vedi allegati Serra e Maggiani

In quanti hanno assistito all’omicidio? Per trovare una risposta la più possibile aderente all’accaduto di Civitanova Marche serve certamente la testimonianza di chi ha filmato l’assassinio e poi ha chiamato e fatto arrestare l’omicida. (vedi allegato). Nell’intervista, rilasciata a La Repubblica, Mariano M. – che lavora all’ufficio dogane di Civitanova, è emigrato 15 anni fa da Caserta – afferma < Basta, smettetela di dire che nessuno è intervenuto per salvare Alika, smettetela di accusarci di indifferenza, io c’ero mentre quell’energumeno uccideva Alika, ho provato a fermarlo, non ci sono riuscito, ho dato un calcio alla stampella, però ho chiamato la polizia e l’ho fatto arrestare>. Prosegue con molti dettagli e precisa che <Eravamo in quattro, così ho ricostruito anche dal video: una signora anziana, una ragazza, un uomo anch’egli d’età con il cane e io. Come avremmo potuto fermare quell’uomo? Per questo rifiuto le accuse di razzismo e di indifferenza>.

Paura o indifferenza? La violenza incute soggezione, la violenza fisica inculca paura e impotenza (a meno che non si disponga di “..mani forti per disarmare” come auspica Michele Serra a conclusione della sua Amaca). La paura è un sentimento umano profondo, è la vigliaccheria che è insopportabile. Il vero coraggio sta nell’affrontare il pericolo, il rischio quando si ha paura. Il coraggio non è non avere paura, è non avere paura di avere paura. Ciò è possibile quando esiste un senso civico elevato, un sentire comune avverso al linguaggio “fatti i c…tuoi!”. Oggi questo “sentire” è debole ma può crescere. Un tempo, nella seconda metà del secolo scorso era presente: se intervenivi sapevi di non esser lasciato solo, a questo “sentirsi noi”aveva contribuito molto la cultura dell’essere sindacato fondata sulla partecipazione e sulla militanza degli associati.. Un sentimento che dobbiamo e possiamo dare ritornare nella società.

A Civitanova erano solo in quattro (il lavoratore della dogana, un anziano con cane, una ragazza e un’anziana signora) in quelle poche decine di secondi in cui Akila è stato ucciso a pugni o strangolato. Che cosa avrebbero potuto fare in quattro vincendo la paura? Molto: afferrare l’aggressore per le orecchie e i cappelli, picchiarlo con la stampella, mentre l’anziana signora urlava. Akila come dimostra il filmato prima di essere sopraffatto ha tentato di reagire. Perché ciò potesse accadere, che la paura fosse superata, serviva ciò che oggi è latitante nella società: essere sicuri che altri avrebbero dato manforte, anche se un po’ lontani, arrivando di corsa. Questo sentire comune latita, c’è di che riflettere su quanto accaduto a Civitanova figlio della paura più che dell’indifferenza, come spiega indignato Mariano M. Ci sono poi altre domande da farsi, e la prima è la frettolosa ed errata analisi di giornalisti che, pur non essendo presenti e non avendo elementi per descrivere la scena, hanno immediatamente “gridato” al razzismo e all’indifferenza (Riotta arriva a scrivere di <il nostro Floyd> riferendosi ai fatti americani); la seconda è capire come mai un soggetto con una tale e riconosciuta invalidità psichiatrica potesse tranquillamente passeggiare lontano dalla sua abituale residenza salernitana senza alcun controllo.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *