La punta di diamante spezzata
“Un compromesso su petrolio e gas – Bruxelles non potrà fare di più” – Il ministro Roberto Cingolani risponde con franchezza e in modo comprensibile ai tanti alle 15 domande di Annalisa Cuzzocrea , per la Stampa, il 26 maggio. Il quadro che emerge non è per nulla confortante né per la tenuta unitaria tra i 27 paesi dell’Europa per quanto riguarda quella che era, nelle dichiarazioni iniziali, la punta di diamante delle sanzioni economiche alla Russia (drastica riduzione e poi embargo del petrolio e gas russo) che avrebbe portato il presidente Putin al negoziato anziché ricercare la definizione del conflitto solo con le armi. Eppure si prosegue nell’enfasi retorica sulla grande unità dell’Europa conseguente alla tragedia dell’invasione russa. Le cose non vanno per nulla bene:tra i 27 paesi emergono sempre più divergenze (non è il solo Orban l’ostacolo), la Gran Bretagna cerca nuove alleanze con il paesi del Nord Europa, Il rublo si è rivalutato grazie all’espediente dei due conti. Putin con il petrolio e soprattutto il gas incassa più soldi (di prima?) per finanziare la guerra di aggressione. Tra le molte dichiarazioni generiche, e datate, per capire lo stato reale dei fatti molto servono le schiette risposte del ministro Cingolani, qui riprodotte.
L’Europa era partita con l’idea di bloccare l’importazione di petrolio e gas russi, «ma quello a cui potrà arrivare è soltanto un compromesso». Roberto Cingolani risponde dall’aeroporto, mentre è in partenza per il G7 dei ministri del Clima, dell’Energia e dell’Ambiente di Berlino.
L’Europa era partita altisonante: basta gas, basta petrolio, l’accordo è vicino. E invece, da una parte frena la Germania, dall’altra l’Ungheria, e le sanzioni che dovevano fermare la guerra di Putin sono al palo. È accettabile? «È una questione estremamente complessa perché le situazioni dei vari Paesi sono molto differenti. Il punto di vista di chi dice che una sanzione non dovrebbe danneggiare chi la fa più di chi la subisce è comprensibile».
Chi lo sostiene? – «La Germania, l’Austria. Si tratta di un problema etico gigantesco, perché sappiamo bene che il pil della Russia è basato sull’export di energia: alla fine la commissione troverà una via d’uscita, che comunque dovrà essere un compromesso».
Nel frattempo abbiamo aperto con Eni il conto K, in euro e in rubli, per aggirare le sanzioni che ci sono? – «Abbiamo lavorato con assoluta trasparenza. Per l’operatore italiano ed europeo l’operazione finisce quando paga la fattura in euro, la banca russa che li trasforma in rubli non è sanzionata. In più, se le regole cambieranno, le società si adegueranno immediatamente. E c’è sempre l’arbitrato presso il tribunale svedese».
Non cambia molto. Continuiamo a finanziare l’aggressione della Russia all’Ucraina dopo aver promesso che avremmo cercato di fermarla. – «L’Italia sta facendo un’operazione che nessun Paese europeo è riuscito a fare: in poche settimane abbiamo concordato una diversificazione con alcuni Paesi africani. Ci siamo assicurati 25 miliardi di metri cubi di gas che nella seconda metà del 2024 andranno a pieno regime e sostituiranno i 29 miliardi di metri cubi importati dalla Russia. Nel frattempo, proseguiamo sulla rotta della decarbonizzazione tenendo fermo l’obiettivo della riduzione del 55%».
Bastano davvero poco più di due anni? – «Ci sono due variabili importanti: bisogna completare gli stoccaggi di gas adesso, siamo al 47%. Poi bisognerà installare due rigassificatori galleggianti. Stiamo facendo le valutazioni tecniche, Ravenna ha già dato grande disponibilità e stiamo esplorando l’ipotesi di Piombino, la più rapida. Ma ne parliamo con le istituzioni locali».
Se la Russia decidesse di chiudere i rubinetti del gas dall’oggi al domani, cosa accadrebbe al nostro Paese? – «Iniziare il prossimo inverno con un deficit di gas negli stoccaggi sarebbe un problema, ma bisogna tenere a mente che anche la Russia dovrebbe riorganizzare il suo export molto rapidamente».
Draghi aveva chiamato a scegliere tra pace e condizionatori, un sacrificio che nessuno sembra pronto a fare. -«Una parte di sacrificio è giusta in ogni caso. Mai come in questo momento risparmiare energia è fondamentale. Se abbassi la temperatura di un grado durante l’inverno, risparmi due miliardi di metri cubi di gas. Una cosa simile accade regolando meglio l’aria condizionata. I due anni che ci servono per le infrastrutture che spostano la catena del gas servono anche per un’azione sistemica di risparmio. Una transizione troppo rapida creerebbe un problema di forza lavoro: siamo un Paese manifatturiero, non possiamo pensare di chiudere tutto. Allo stesso tempo, andare troppo lentamente creerebbe un disastro ecologico».
Il tetto al prezzo del gas, la proposta italiana, passerà? – «Il nostro team di tecnici ha lavorato con la commissione per svilupparla. Bisogna aver chiara una cosa: se un anno fa pagavamo il gas venti centesimi a metro cubo e oggi lo paghiamo un euro e mezzo non è perché è diminuito. Dipende dalla volatilità del mercato e dalla speculazione ed è inaccettabile. Il prezzo viene fatto alla borsa del gas di Amsterdam e da quello dipende anche il costo dell’elettricità. Quando sale, sale tutto. Se avessimo un price cap europeo, un limite valido per tutti i Paesi, riusciremmo a tenere giù questi prezzi».
L’obiezione è che tutti i fornitori, non solo la Russia, andrebbero a vendere altrove. – «Complicato, visto che l’Europa importa i tre quarti del gas mondiale nelle sue condutture (diversamente dal gas liquido). Gli operatori continuerebbero a guadagnare, limitando il profitto. Che senso ha difendere un libero mercato che mette in ginocchio aziende e cittadini? Può essere una misura transitoria, ma è necessaria. E bisognerebbe anche scollegare il prezzo dell’elettricità da quello del gas».
Nel frattempo l’export del petrolio russo verso l’Italia è quadruplicato dallo scorso febbraio. Com’è possibile? – «La centrale di Priolo che importa quel petrolio è la succursale russa di un’azienda russa. In questo momento l’embargo riguarda solo le navi, non ci sono violazioni e non ci sono margini per intervenire».
Alcuni ambientalisti la attaccano: non fa abbastanza per emancipare il nostro Paese dal fossile. È così? – «La risposta la danno i numeri. Tra due anni ci mancheranno 29 miliardi di gas russo, noi le sostituiamo con 25 miliardi da altri Paesi. Il resto lo facciamo con le rinnovabili sulle quali abbiamo accelerato con un piano senza precedenti. Poi ci sono le “lobby dei rinnovabilisti” che vogliono vendere e secondo cui non basta nulla: per loro serve il commissariamento e con 6 gigawatt di impianti in tre anni si risolve il problema. Questa narrazione è arrivata anche in certi programmi della tv pubblica, ma è falsa».
Quella vera quale sarebbe? – «Stiamo verificando in questi giorni le richieste di messa in esercizio sulla rete di Terna: ci sono circa 2 gigawatt passati attraverso le nuove aste, 2,3 andati autonomamente sul mercato e altri 2,3 il cui iter approvativo è quasi terminato. Ma quando mai nei primi mesi dell’anno avevamo più di 4 gigawatt pronti ad allacciarsi? Anche qui però bisogna stare attenti alla speculazione: l’energia elettrica rinnovabile, che dovrebbe essere economica, non può essere venduta a un prezzo uguale o superiore a quella prodotta bruciando gas. Bisogna disaccoppiare i prezzi delle rinnovabili da quelli delle termoelettriche: facciamo una borsa del mercato rinnovabile e una del termogas, perché per com’è adesso si fanno profitti mostruosi spendendo poco».
Davvero in un Paese come l’Italia non si può fare di più? – «Facciamo finta che si mettano 60 gigawatt. Non c’è una rete adatta a gestire queste potenze, che non sono distribuite sul territorio. Se si fa il calcolo al costo degli accumuli odierni, servirebbero 10-15 miliardi di euro. Quanto alle centinaia di progetti che, se approvati, risolverebbero tutto producendo 100 gigawatt, è un’altra narrazione distorsiva. Perché quei progetti insistono sulle stesse aree. Quando ne scegli 10, devi buttare gli altri».
Nega ci sia un problema di burocrazia? – «Nient’affatto. Abbiamo accelerato le autorizzazioni del Mite, ma poi la pratica passa al Ministero dei beni culturali, alle sovrintendenze che hanno alte percentuali di bocciature. E ci sono i piani di cui si occupano direttamente le Regioni. In passato la macchina si è inceppata troppo, ma stiamo lavorando per snellirla».
Nel frattempo ha ricevuto al ministero molto più spesso le compagnie petrolifere di tutte le altre? – «Chi lo dice parla di 102 incontri da luglio del 2020 a maggio del 2021, peccato che io abbia giurato il 16 febbraio 2021. Per dire la precisione di queste accuse. Nel primo periodo avevo l’agenda trasparente, che dimostra come sia avvenuto il contrario. Poi il Garante della Privacy ci ha costretti a chiuderla, ma stiamo cercando di capire come fare per riaprirla, così non ci saranno più dubbi. Nel merito: all’Eni, la prima volta che ci siamo incontrati, ho detto che non faremo né carbon capture né idrogeno blu. Non sono previste nel Pnrr. Fine della storia». —
In allegato l’intervista del responsabile del Green Deal europeo Frans Timmermans “Basta mettere soldi nelle tasche di Mosca, la resistenza inizia dalle nostre case”. Intervista rilasciata a Marco Zatterin per la Stampa
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