La coerenza di Cipputi

La coerenza interna dell’operaio CipputiGiuseppe Lupo, su Il Domenicale del Sole del 16-7-23, racconta l’iconico e tagliente personaggio di Altan al centro di una mostra alla Fondazione Mast di Bologna. Nelle vignette scorre l’epopea di una figura (forse) superata dalla storia ma certamente colma di dignità. Di seguito il testo.

<< Cipputi, l’operaio uscito dalla matita di Francesco Tullio Altan una quarantina di anni fa, ha una fisionomia immutata nonostante ogni cosa sia cambiata intorno a lui: tuta blu e immancabile chiave inglese, cappello con visiera rivolta all’indietro, scarpe allacciate, occhiali tondi che a fatica nascondono il ghigno beffardo di chi ha capito presto da che parte tira il vento della Storia e possiede il dono di avere sempre sulle labbra parole adeguate al contesto, una battuta secca, un parlare laconico e tagliente, come si addice a chi, vivendo nello spazio di una vignetta, deve costruirsi una lingua senza sbavature e orpelli, priva di intellettualismi, scolpita nell’amarezza di una lapide.

Sarà per l’asciuttezza del linguaggio, sarà per la schiettezza dei giudizi o per la compattezza delle idee, ma abbiamo imparato ad amarla la sua sagoma ben impettita che si erge operosa ed eroica dal proprio posto di lavoro, sfiduciata per quel che è avvenuto ma non per questo convinta di essersi schierata dalla parte sbagliata. Sappiamo che esiste un’anima colorata sotto la divisa e che i goffi macchinari intorno a cui trafficano le braccia rappresentano il luogo di un’identità virtuosa, il lascito di una sapienza che apparteneva anche a Tino Faussone, il personaggio letterario descritto da Primo Levi nella Chiave a stella (1978). Sono entrambi operai, uno meno sindacalizzato dell’altro, ma sono venuti al mondo nello stesso periodo e credono nel lavoro ben fatto, hanno fiducia che la condizione operaia possa costituire un utile osservatorio da dove misurare la metrica dell’età contemporanea.

Con un’unica differenza, però. Cipputi è vissuto più a lungo di Faussone e ha assistito alla fine del secolo rimanendo sempre là, nel suo reparto, come un soldato nella trincea di un immaginario campo di battaglia su cui si sono avvicendati prima i gloriosi cortei sindacali, poi i vessilli ammainati, fino a diventare oggi, nella più postmoderna delle dimensioni stranianti, uno spazio vuoto, un contesto periferico al sistema, dove l’unica considerazione credibile è quella contenuta nella vignetta che descrive il suo risveglio in canottiera, pigiama e rotolo di carta igienica nella mano mancina. Con questa didascalia: «A furia di cambiamenti epocali, non trovo più il cesso». Siamo nel nuovo millennio ed è una delle rare immagini in cui Cipputi è colto in atteggiamenti domestici.

Per il resto, la sua è una vita in fabbrica, circondato da colleghi che di volta in volta chiama Bergonzoni, Zolìn, Gavazzi, Filètti, Bisnaghis, Pillòri, Binis, Fibbis, Bigazzi, Boffis, Guinis; cognomi d’altri tempi, venuti fuori dall’elenco di qualche patronato sindacale, in uno di quei tanti bugigattoli impregnati di chiacchiere e sigarette, ai margini della Milano non ancora metropoli, dove i campi di grano separavano le case dalle fabbriche e il sole dell’avvenire illuminava perfino le notti degli inverni.

È da quell’antropologia in bianco e nero che potrebbe essere partito Cipputi, operaio pendolare, monolitico avamposto di una società contemplata dal basso. Da sempre le sue mani stringono utensili grossolani, spingono i pulsanti di affaticate presse, accudiscono i torni che sono bravi a plasmare metalli e che all’occorrenza possono trasformarsi nei deschi su cui poggiare gli aggrovigliati piatti di spaghetti che lui divora scambiando due parole con il collega di turno, nelle pause in mensa che la fabbrica gli regala.

Dire che sia soltanto questo l’epilogo destinato a chi ha avuto fede nella religione della produzione, il vero grande dio della modernità, sarebbe un’affermazione parziale. Cipputi non si arrende mai all’apatia, ha un’anima meccanica, un’etica febbrile, se deve pronunciare il termine tecnica lo fa alla maniera lombarda, dice tennica, guidato com’è dall’ossessione per il laurà, un po’ simile al calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi.

Altan confessa di aver visto il suo eroe tra le strade di una Milano anni 70, durante i fermenti di un’epoca segnata dal referendum sul divorzio, dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia, dall’accordo sul punto di contingenza siglato tra Luciano Lama e Gianni Agnelli, dalla legge sul diritto di famiglia che sanciva la parità tra uomini e donne.

Cosa si saranno detti? Uno avrà tirato fuori carta e penna, l’altro sarà fuggito perché non c’era tempo da perdere, i turni sono turni – avrà pensato – e, se davvero la modernità mette alla prova, bisogna difendersi come meglio si può, magari con le battute che regala al collega amico quando gli si avvicina con aria interrogativa. Una di queste dice tutto della sua visione del mondo. Non appena gli viene proposta una complicata questione aziendale («La Fiat è in difficoltà, Cippa. Bisogna che ci andiamo al soccorso»), lui sentenzia sarcastico: «Forse al governo non ci andremo mai, Bullonzi, ma il paradiso non ce lo leva nessuno». Che gran filosofo è quest’uomo! La classe operaia non è mai andata in paradiso e lui, rassegnato, poche cose esige al disincanto in cui vive: il rispetto per una civiltà finita esattamente com’è finito un certo tipo di lavoro manuale, l’attenzione che si riserva alla memoria di una stagione, quando essere operaio significava sfilare nei cortei, urlare slogan davanti ai cancelli di Mirafiori, esibire la tessera del sindacato.

Poi, qualcosa di inaspettato e di irreversibile è accaduto sotto gli occhi e con il ridimensionarsi dell’azione sindacale sono iniziati i decenni in cui Cipputi non poteva rispondere se non con ironia al collega che rimpiangeva il sole dell’avvenire: «Non farmi il patetico: ci sono delle ottime lampadine». L’etica di questo personaggio sta proprio qui, nelle affermazioni che lo proteggono dalla delusione. Egli continua a parlare a chi lo interpella, ma le sue parole si sono modificate sulla base di com’è cambiato il mondo e ora che sono passati quarant’anni ciò che forse chiede è essere lasciato in pace ad avvitare bulloni e manovrare leve, nella condizione di chi si è salvato al naufragio sapendo bene che la sua è la vicenda di un sopravvissuto all’estinzione, uno di quei mammut di cui racconta Antonio Pennacchi.

C’è dignità nella solitudine dell’operaio Cipputi ed è questa la sua salvezza: aver svolto nel migliore dei modi il compito che la Storia gli ha assegnato, poco conta se i padroni hanno tirato dritto per la loro strada e il sindacato ha piegato le ginocchia. Adesso che ottime lampadine sostituiscono il vecchio sole dell’avvenire, comprendiamo la sua forza morale. Cipputi ha preferito rimanere fedele alla sua avventura di lavoratore, cominciata nel segno di un ottimismo immancabile e tuttavia scivolata di mano per ragioni che non stanno negli utensili o nelle macchine, perduta chissà dove e chissà quando nei decenni che hanno sancito la fine del Novecento in nome di qualcos’altro che non si chiama più modernità ma che aspetta ancora di avere un’etichetta. «Te, che autobus prendi?» gli domanda a fine turno il collega. E lui, Cipputi, con la borsa vuota della schiscetta in mano: «Qualunque. Vada dove vada, ho la mia coerenza interna.» Possiamo stare tranquilli: non si perderà. Diamogli il tempo di riflettere e prima o poi lo troverà il nome all’epoca che stiamo attraversando. E ce lo dirà, come fa da quarant’anni, affacciandosi da un quadratino di carta grande poco più di un francobollo.

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