DUBAI: FINE DI UN SOGNO
Dubai: la fine di un sogno?
Jessica Scopacasa è una collaboratrice dell’Istituto Paralleli. Pubblichiamo una sua "cartolina " da Dubai.
"Ciò che ha reso grande Dubai, il suo sogno visionario, sembra essersi infranto al passaggio della crisi.
L’emirato si è destato su una dura realtà, stupito e spaventato dalla propria
vulnerabilità".
da Jessica Scopacasa
Sharjah, 13 ottobre 2009
Dubai, ore 9:9’:9” del 9 settembre 2009: entra in funzione la più lunga
metropolitana completamente automatizzata al Mondo. La cerimonia di apertura è
trasmessa live in televisione. Sua Altezza Sheikh Mohammed bin Rashid Al
Maktoum, Vice Presidente e Primo Ministro degli Emirati Arabi Uniti, nonché
Governatore di Dubai, oblitera tra uno stuolo di funzionari e alte cariche dello
Stato il primo biglietto della Linea Rossa; la lista dei record di Dubai si
allunga. Il 2 dicembre, nel giorno della festa nazionale degli EAU, potrebbe
aggiungersi ufficialmente anche quello del grattacielo più alto: il Burj Dubai,
sulla cui ultimazione si rincorrono da mesi voci discordanti, ma che con i suoi
oltre 800 metri ha da tempo tolto il primato alla Taipei 101 Tower di Taiwan,
ferma a poco più della metà dei piani della costruzione emiratina.
Eppure l’atmosfera non è quella delle grandi feste e la soddisfazione sui volti
noti dell’establishment di Dubai appare smorzata da un retrogusto amaro. Sarà
perché delle 29 stazioni metropolitane dislocate sui 52 km di sopraelevate dal
design futuristico, appena 10 erano operative al momento dell’inaugurazione,
dopo che il costo per la realizzazione dell’opera è quasi raddoppiato, passando
dai 15,5 miliardi di AED stimati inizialmente, agli attuali 28 miliardi (circa
7,6 miliardi di US$). O forse perché l’apertura del Burj Dubai continua ad
essere rimandata, e quell’ultimo lembo incompiuto della torre rammenta
costantemente alla città su cui svetta, i pesantissimi effetti che la crisi
economica ha prodotto sul settore del real estate emiratino, con oltre il 50%
dei progetti di costruzioni cancellati o sospesi e miliardi di debiti che hanno
fatto vacillare anche le più robuste compagnie della regione, Emaar Properties
compresa.
Per la prima volta in 15 anni, il PIL degli Emirati ha segnato una crescita
negativa. Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato pochi giorni fa le sue
ultime stime: -0,2% nel 2009. Il mercato stock locale ha perso il 70% del suo
valore a Dubai e il 45% ad Abu Dhabi. Uno shock per un paese abituato a crescite
dell’ordine di due cifre. Il peggio, dicono, è passato. Nel 2010 ripartirà lo
sviluppo e il PIL tornerà a crescere tra il 2,4% e il 3%. Ma nell’aria si
percepisce qualcosa di strano. Se allo scoppio della crisi Dubai ha faticato ad
aprire gli occhi per destarsi dal sogno della crescita senza limiti e reagire
agli effetti che di lì a poco l’avrebbero costretto a varare un piano da 20
miliardi di US$ in Buoni del Tesoro a lungo termine per far fronte ai debiti,
ora sembra aver perso quel ritmo e quello slancio ottimistico, visionario, che
lo aveva portato sotto lo sguardo stupito del Mondo, a divenire in pochi anni il
principale centro economico-finanziario della regione.
Nulla è però visibile agli occhi: i lavoratori immigrati che hanno perso
l’impiego non hanno sfilato per le strade, non sono comparsi sui giornali, non
si sono sentiti; non ci sono dati, numeri che quantifichino ciò che
probabilmente si è tramutato in un vero e proprio esodo. Si percepisce la loro
assenza semplicemente dal calo dei prezzi degli affitti in una città come
Sharjah, dove molti lavoratori di Dubai avevano scelto di stabilire la propria
residenza. Similmente, le difficoltà attraversate dall’economia non sono
chiaramente enunciate, ma tra gli operatori del settore c’è la percezione che il
vorticoso ritmo dell’Emirato si sia fermato, come sospeso. Ciò che ha reso
grande Dubai, il suo sogno visionario, sembra essersi infranto al passaggio
della crisi. L’emirato si è destato su una dura realtà, stupito e spaventato
dalla propria vulnerabilità.
Il modello di sviluppo di Dubai non è di per sé fallito. Probabilmente subirà
nei prossimi mesi qualche lieve modifica correttiva che lo avvicinerà
maggiormente a quello di Abu Dhabi, dimostratosi molto più solido e sano dal
punto di vista finaziario. Ciò che resta da vedere è se Dubai saprà ancora
chiudere gli occhi e tornare a sognare.
In questi giorni ho ricevuto questo testo del giornalista e scrittore uruguaiano Edoardo Galeano, scritto all’inizio del 2004: ho tradotto e sintetizzato: la lezione di ieri ci aiuta a capire l’oggi.. Armando Pomatto In un continente dove tantissima gente non ha altra scuola che la strada, né altro medico che la morte. (Edoardo Galeano, 1990) Haiti : la maledizione bianca Edoardo Galeano. All’inizio del 2004 la libertà ha compiuto due secoli nel mondo. Nessuno si à accorto di questo anniversario. Alcuni giorni dopo, il Paese che festeggiava per primo questo anniversario, Haiti, ha occuapto le notizie dei media , ma non per l’anniversario della libertà, ma per il bagno di sangue che ha seguito alla destituzione violernta del suo presidente Aristide. Haiti infatti è stato il primo Paese in cui era stata abolita la schiavitù, anche se in tutte le enciclopedie e testi di scuola, tale primato sia attribuito all’Inghilterra. Però in tale Paese, campione della democrazia, la schiavitù fu abolita nel 1807, tre anni dopo la rivoluzione haitiana, e la legge inglese risultò così inefficace, che il parlamento dovette riproporre l’abolizione della schiavitù nel 1832. Ma cosa mai può nascere di buono un Paese “da poco” come Haiti ? Da oltre due secoli è sottoposto a discriminazioni ed oppressione continue. Gli Stati Uniti impiegarono sessant’anni prima di riconoscere ufficialmente Haiti. Nello stesso tempo in Brasile, che fu l’ultimo dei Paesi Latino Americani ad abolire la schiavitù nel 1888, chiamava haitianismo il fenomeno di violenza e corruzione che infestava il Paese.– In questo modo Haiti divenne un Paese “ invisibile”, inesistente, lo si citava solo per il succedersi degli eccidi che segnavano i colpi di stato. Così nell’opiniopne pubblica si è installata la convinzione che gli haitiani sono nati per “ far bene il male e far male il bene”. Dalla sua rivoluzione di inizio ottocento ad oggi, Haiti è stato in grado di offrire solo di sè un’immagine di tragedie e sangue. Al contrario, prima era una colonia prospera e felice. Oggi è tra le nazioni più povere del mondo. Le rivoluzioni, secondo alcuni “ esperti” dell’Occidente, portano al disastro… Altri poi aggiunsero e decretarono, che questa attitudine alla guerra fratricida di Haiti, deriva dall’eredità selvaggia giunta dall’Africa…La punizione degli antenati. La maledizione nera che spinge al crimine ed al caos. Della maledizione bianca però nessuno ha mai fatto cenno. La Rivoluzione Francese aveva eliminato la schiavitù. Però Napoleone l’aveva reintrodotta. E per consolidarla in Haiti, aveva inviato oltre cinquanta navi cariche di soldati. I neri si ribellarono. Sconfissero i francesi e riconquistarono l’indipendenza e l’abolizione della schiavitù. Era il 1804. Ad un caro prezzo però. Le loro piantagioni di canna da zucchero e di riso erano state devastate, e la Francia pretendeva il pagamento dei danni di guerra pe riparare l’umiliazione inflitta al loro imperatore. Appena nata Haiti doveva pagare un debito immenso per riparare il torto fatto con la sua nascita. Questo cappio al collo costò al Paese 150 milioni di franchi-oro, che corrispondono a 44 bilanci attuali dello stato haitiano. Il debito fu saldato nel 1938, ma da quell’anno Haiti dipende dalle Banche di New York. Infatti fin dal 1915 i marines degli Styati Uniti erano sbabrcati ad Haiti, occupando le dogane e gli uffici delle imposte. I soldati rimasero nel Paese fino al momento in cui il suo presidente firmò la liquidazione della Banca Nazionale haitiana, decretandone la piena dipendenza da City Bank. In questi anni i neri non avevano accesso ai servizi ed ai locali riservati ai bianchi occupanti ed ai loro collaboratori. Non si ristabilì la schiavitù, ma fu imposto il lavoro forzato nelle opere pubbliche. Il capo guerrigliero Peralte, arrestato e crocifisso ad una porta, fu esibito per giorni in pubblico. Questa missione civilizzatrice terminò nel 1934. Gli occupanti si ritirarono laciando sul posto una Guardia Nazionale, formata ed addestrata per reprimere ogni tentativo di ristabilire la democrazia. Stessa sorte toccò al Nicaragua ed alla Repubblica Dominicana alcuni anni dopo. In questo modo trascorrono i decenni in Haiti: da dittatura a dittatura, da promesse a tradimenti. Con il ritorno dei marines, ogni volta, come la malaria… Non solo. La finanza internazionale ha creato ancor danni maggiori. Le condizioni imposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario Internazionale, hanno piegato il Paese in un modo penoso, neanche i più elementari strumenti di protezione della produzione nazionale sono stati rispettati. I contadini, maggioranza della popolazione e coltivatori di riso, si sono trasformati in mendicanti o barcaioli. Il Paese oggi importa dagli Stati Uniti il riso di cui era un forte produttore. Alla frontiera con la Repubblica Dominicana si nota un cartello: El mal passo ( Ingresso sfortunato).