CORREVA L’ANNO 1992 – A.Serafino – crisi e politica 16/11/11

E’ molto difficile seguire ed orientarci sui commenti che accompagnano la formazione del nuovo governo di Mario Morti, la caratura ed il programma, lo scontro tra Pdl e Pd per includere o meno il tandem Giuliano Amato e Gianni Letta come segno d’impegno diretto dei due grandi partiti, fino a ieri in posizioni contrapposte. Sulla biografia di Mario Monti c’è una larga convergenza dei commentatori – siano essi di sinistra, di destra o di centro –  quando si tratta di tracciare la figura dello studioso e dell’economista (sobrietà di comportamento, serietà e competenza nel suo campo, chiarezza delle idee sostenute, onestà della persona). Non poco nel quadro del firmamento politico italiano che ha dato l’assenso per una durata complessiva di 17 anni al “modo di fare e di comportarsi” di Silvio Berlusconi e dintorni, inzuppato di conflitto d’interessi economici, di vendita del fumo, di scorrettezze, di illeciti, ed infine con uno stile di vita che ha destato l’irrisione ed il decadimento del nostro prestigio e rispetto istituzionale in tutto il mondo, fatta eccezione per i paesi a guida dispotica.

Ben diversa è la valutazione sul ruolo ricoperto da Mario Monti in carriera. Il mondo politico italiano si divide, con maggior accentuazione a sinistra. Chi lo vede come l’economista liberista, convinto sostenitore dell’Europa e dell’euro, che non guarda in faccia nessuno, che crede sì al mercato ma guidato da regole severe ed applicate, che in sue dichiarazioni passate ha affermato che è logico che “votino i mercati” ma dovrebbe farlo con modalità proprie “..anche il sociale”, che tenta ora l’avventura italiana puntando ad un’azione di governo improntata ad un equilibrio tra “rigore, equità e crescita”.

 

Chi crede nella scelta operata da Giorgio Napolitano pensa a queste caratteristiche ed all’operato di Mario Monti come Commissario Europeo alla concorrenza, quando ebbe il coraggio di opporsi, nel 2001, agli interessi degli Stati Uniti per costituite una posizione di monopolio con la fusione della General Electric e la Honeywell e poco dopo sfidò il colosso dell’intoccabile Microsoft di Bill Gates, comminando una multa da mezzo miliardo di euro per abuso di posizione dominante. Fatti che sono rimasti negli annali dell’Antitrust europeo ma non si sono ripetuti, che gli valsero il soprannome di Super Mario, per iniziativa dei media tedeschi.

 

Chi teme la scelta di Mario Monti sottolinea, invece, il fatto che il suo ruolo è stato di “uomo delle banche” e non solo un competente consulente delle banche d’affari, un esperto della finanza. Estremizzando “ un volto onesto” però al servizio di Goldman Sachs e dei salotti della finanza europea e mondiale “che operano complotti contro monete o debiti sovrani o cavalcano la speculazione nell’era della globalizzazione”. Esemplare in questa ottica sono gli articoli, in particolare su Il Manifesto e su Liberazione, che operano anche accostamenti per  “ la strana copia Monti-Marchionne” in merito ai loro propositi. Su Monti "uomo delle banche d’affari"  scive anche Milano Fiananza ed altri seguiranno.

Mario Monti non ha annunciato “lacrime e sangue”, ha detto che servono sacrifici ( pensioni e nuove tasse) e che questi debbono essere equi. Questo è il vero nodo, unitamente alla crescita ed alla speranza di lavoro per giovani che non lo possiedono e per coloro che  – pur avendolo – temono di perderlo.

 

La crisi che imperversa dall’estate ha similitudine con quanto avvenne nel nostro paese nell’autunno del 1992, con il governo Amato.

 

Possono essere utili i tre articoli allegati scritti in periodi diversi: 1992, 2010 e 2011.

 

ci scusiamo ma non potendo inserire gli articoli come allegati ( disfunzione del server) li pubblichiamo in prosecuzione dell’articolo. Per tale inconveniente non possiamo operare in queste ore l’aggiornamento del sito con gli articoli già selezionati.

  • Quel "prestito forzoso" di Monti e Trentin di Bruno Ugolini 14 novembre 2011
  • L’autunno nero del 92 tra tasse e svalutazioni di Dino Pesole  su il Sole del 30 aprile 2010
  • Un prestito forzoso per salvare l’Italia di V.Sivo 9 settembre 1992 La Repubblica

 

Quel "prestito forzoso" di Monti e Trentin di Bruno Ugolini 14 novembre 2011

La scelta di una “patrimoniale” verrà davvero adottata dal nuovo governo Monti? Certo rischia di non trovare in Parlamento l’appoggio necessario anche perché il centrodestra la presenta come una minaccia per modesti proprietari. E allora si potrebbe lanciare un “prestito forzoso”, non certo riservato ai meno abbienti. 

E’ interessante ricordare che una proposta simile venne suggerita, nella crisi degli anni 90, da due personaggi diversi per formazione e idee, ma rispettosi l’uno dell’altro. Uno era proprio Mario Monti e l’altro Bruno Trentin, allora segretario generale della Cgil.

Aveva detto quest’ultimo (Corriere della sera del 10 settembre del 1992)  come con la logica di fare "sacrifici per avere un’ Italia veramente diversa, in una situazione così drammatica per l’ economia italiana si può immaginare che lo Stato ricorra a un prestito forzoso, a carico di tutti i cittadini e in relazione al loro reddito".

Ritorna sulla proposta un anno dopo. Troviamo una rievocazione del fatto in un servizio su "l’Unità" (vedi immagine) e in un articolo di Marco Cianca sul "Corriere della sera" in data 23 gennaio 1993.  Scrive Cianca: “Lui, il segretario della più grande confederazione sindacale, invoca sacrifici durissimi per tutti. Il suo ragionamento parte dalla constatazione che il prestito internazionale richiesto dall’ Italia impone severe condizioni: non rispettarle sarebbe da irresponsabili, significherebbe scherzare con il fuoco, a rischio di vederci bloccare la seconda rata… Il nostro sistema industriale e’ stato travolto dall’ indebitamento pubblico e dalla finanziarizzazione dell’ economia. Non si esce dal buco nel quale siamo caduti con una manovra di aggiustamento contabile. Bisogna reperire nuove risorse…”.

" Ma che propone la Cgil? – prosegue Cianca – Torna alla carica con il prestito forzoso? Si’ – risponde Trentin – lo riproporremmo con decisione. E che altro? Bisogna avviare la riforma dell’ imposizione sui redditi e sui patrimoni. I titoli pubblici di nuova emissione debbono essere nominativi. Vanno eliminate tutte le forme di cedolare secca e deve valere la progressivita’ dell’ imposizione. Nei Paesi civili si pagano le tasse su tutti i redditi e non solo su una parte di essi. Bisogna far rientrare nella legalità zone oscure che permettono l’ evasione fiscale, il riciclaggio del denaro sporco e la redistribuzione selvaggia delle risorse. Prestito forzoso, Bot e Cct nella denuncia dei redditi. Una requisitoria, questa di Trentin, che spiazza tutti”.

Ma che non piacque nè alla sinistra di Achille Occhetto nè alla destra.

 

14 novembre 2011 su Unità

 

 

L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni

Venerdì 30 aprile 2010 Il Sole 24 Ore

 

di Dino Pesole

Bancarotta, crisi finanziaria, insolvenza: scenari inquietanti per la Grecia a un passo dal baratro, come avvenne da noi nel 1992, se pur in un contesto europeo e globale non comparabile con l’attuale. Le similitudini sono molteplici, come ricorda Giuliano Amato, che in quell’estate-autunno di 18 anni fa guidava un governo nel pieno della tempesta di Tangentopoli. Anche l’Italia si trovò di fronte al dilemma se intervenire per riportare i conti pubblici entro un sentiero di sostenibilità, oppure scivolare lentamente nell’abisso. L’imperativo categorico era recuperare un minimo di credibilità sui mercati, alleggerire il peso degli interessi che cresceva a ritmo esponenziale facendo volare il deficit. Una spirale infernale, poiché l’alto debito costringeva il Tesoro a offrire rendimenti sui propri titoli che superavano il 12,5 per cento. In questa situazione di grande fragilità partì l’attacco alla lira.

L’Europa era in pieno panico da referendum danese, con il rischio che un no alla ratifica del trattato di Maastricht innescasse un effetto a valanga sugli altri paesi. Il mercato prese a sparare alla rinfusa e le monete meno forti furono le prime a cadere sotto i colpi della speculazione: la peseta e la lira, prime tra tutte. La situazione economica italiana – osservò Amato nel presentare il suo governo alle Camere – è di «particolare gravità, sia per la finanza pubblica che per le strutture portanti del sistema. In assenza di correzioni, dietro l’angolo non c’è l’uscita dall’Europa, il rifugio in un’impossibile autarchia, ma il rischio di diventare una Disneyland al suo servizio, arricchita dal nostro clima, dalle nostre bellezze naturali, dalle vestigia della nostra storia e della nostra arte».

Con il debito pubblico al 105,2% del Pil (nel 1982 era al 64%), con il fabbisogno che viaggiava attorno al 10,4%, con il passivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente in crescita, stavamo attraversando «la più grave crisi dopo quella del 1947, all’epoca di Corbino e Einaudi, quando si discuteva se cambiare moneta, l’inflazione era alle stelle, il paese distrutto». La crisi finanziaria era alle porte.

L’antipasto venne servito il 10 luglio con una manovra correttiva da 30mila miliardi delle vecchie lire, con tanto di patrimoniale del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Una scelta «dolorosa ma obbligata, e comunque non pari all’alternativa che mi era stata prospettata, quella di aumentare di un punto l’Irpef», sottolinea Amato. Dalla Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi metteva mano alle riserve, aumentava il tasso di sconto, ma per sua stessa ammissione la credibilità del paese sui mercati internazionali aveva ormai toccato il suo minimo storico. Proprio in quelle settimane, Amato giocò la carta della politica dei redditi. L’intesa con le parti sociali che spediva in soffitta la vecchia scala mobile venne raggiunta la sera del 31 luglio. Determinante fu il voto favorevole di Bruno Trentin, che subito dopo partì per le vacanze con la lettera di dimissioni in tasca.

«Ricordo bene quel che mi disse Ciampi, con la sua consueta saggezza e lungimiranza. Mi esortò a chiudere in fretta l’accordo con i sindacati. Sarà di fondamentale importanza, aggiunse. Così fu, perchè quando in settembre decidemmo di svalutare, quell’accordo era operativo». Gli eventi si susseguivano con una successione al cardiopalma. Il 4 settembre, all’apertura del mercato dei cambi, la lira crollava a quota 765,50 contro il marco (poi avrebbe raggiunto quota 800). Vano anche l’ennesimo tentativo della Banca d’Italia che portava il tasso di sconto al 15%, un livello mai raggiunto dal 1985.

A partire da giugno gli interventi a sostegno della lira avevano raggiunto i 48 miliardi di dollari. E a fine agosto all’asta dei Bot erano rimasti invenduti titoli per 3.300 miliardi.

La sera del 13 settembre, Amato comunicava in diretta tv agli italiani la svalutazione della lira «che a conti fatti – rievoca – si attestò tra il 20 e il 25 per cento. Grazie all’accordo di luglio, tenemmo fermissimo il controllo dei costi interni, il che permise alle imprese di guadagnare 20-25 punti veri di competitività».

La Grecia non può giocarsi questa carta, poiché con l’euro è finita l’era delle svalutazioni competitive, come si chiamavano allora. Il secondo elemento a sfavore dei cugini ellenici – sottolinea Amato – «è che sindacati e imprese marciarono uniti da noi nell’interesse del paese. In Grecia sindacato e opinione pubblica restano convinti invece che nessuno debba interferire su una molteplicità di diritti acquisiti che pesano sul bilancio dello Stato». La lira e la sterlina, in quel drammatico autunno del ’92, uscirono dagli accordi di cambio europei, mentre si rincorrevano da noi voci incontrollate su possibili misure straordinarie da economia di guerra, tra cui il prestito forzoso e il parziale congelamento dei rimborsi dei titoli di Stato in scadenza.

La risposta del governo Amato fu la maximanovra da 93mila miliardi, pari al 5,8% del Pil, la più imponente correzione dei conti mai realizzata fino ad allora (43.500 miliardi di tagli, 42.500 di nuove entrate, 7mila di dismissioni). Una stangata da «lacrime e sangue» che servì – lo ricorda lo stesso Amato – «per rientrare, come dissi in Parlamento parafrasando Franco Modigliani, nel consorzio delle società normali». Papandreou «dice le stesse cose, ma il mio grande vantaggio fu che gli italiani si convinsero che quella era l’unica strada». Un po’ come avvenne anche nel 1998, quando gli italiani furono a chiamati a contribuire di persona con l’eurotassa (poi restituita al 60%) per agganciare il treno della moneta unica. Uno scatto d’orgoglio nazionale che forse sarebbe utile anche alla Grecia.

 

UN PRESTITO FORZOSO PER SALVARE L’ ITALIA’

Vittoria Sivo 09 settembre 1992 —   pagina 5   La Repubblica

ROMA – Questo governo che "annaspa, senza che si capisca né la sua direzione di marcia, né con quali strumenti pensi di governare l’ emergenza con l’ indispensabile consenso", questo governo "oggi nella mani della Bundesbank", questo governo che non è riuscito a dare "segnali di inversione di rotta" …. Bruno Trentin parla e noi doverosamente annotiamo l’ elenco di doglianze, preparandoci a condensare il messaggio della Cgil ad Amato in un "non contare su di noi".

 

Senonché il leader del più forte sindacato italiano completa il suo ragionamento con una proposta inedita, inaspettata, che forse non cambia tutto il senso dell’ intervista, ma certo ce la fa leggere in una diversa luce. "Io credo che, in una situazione così drammatica per l’ economia italiana, si può immaginare che lo Stato ricorra ad un prestito forzoso, a carico di tutti i cittadini e in relazione al loro reddito".

 

Vuol dire che la Cgil è pronta a contribuire alla politica dei sacrifici con questa offerta? "E’ una mia idea personale per ora. Sì, io penso ad una possibilità di questo genere, ad un prestito che lo Stato restituirà in capo a pochi anni, con un interesse modesto.

Mi chiede se l’ ipotesi somiglia alla soluzione adottata nel ‘ 77 con il congelamento in Bot di una parte della scala mobile; direi che la cosa è diversa perché il sacrificio dovrebbe avere un carattere di equità".

 

Solo cinque giorni fa lei stava per confermare le sue dimissioni dalla Cgil, in un comitato direttivo che alla fine si è, sì, concluso con sua piena soddisfazione, ma anche con una reintrepretazione dell’ accordo firmato il 31 luglio con il governo e dopo un dibattito così cavilloso e tormentato da apparire remoto, proprio mentre la Banca d’ Italia aumentava il tasso di sconto. "Chi è stupito del travaglio della Cgil è molto lontano dal capire la gravità del problemi che abbiamo di fronte, delle scelte anche drastiche e dolorose in cui un sindacato deve coinvolgere i propri iscritti; scelte da coniugare con le regole della democrazia, perché altrimenti c’ è la fuga nell’ autoritarismo, oppure nella rivolta fiscale, due alternative che ci sono radicalmente estranee".

 

Lei crede che l’ immediato futuro riservi agli italiani un abbassamento del tenore di vita? "Sì e purtroppo con forti diseguaglianze, non solo in termini di reddito, ma di diritti e di opportunità. Penso ad esempio alla diversa tutela che avranno i settori del mondo del lavoro rispetto alla conservazione del posto, al prezzo ben più alto che pagherà il lavoratore della piccola industria, senza ammortizzatori come la cassa integrazione. Per questo è impensabile fare a meno del consenso degli interessati imponendo una drastica cura di austerità". Al punto in cui stanno le cose non sarebbe meglio svalutare la lira? "No, sarebbe molto peggio. Una svalutazione innescherebbe fenomeni incontrollabili, restituendo il potere ad una speculazione di carattere internazionale che porterebbe alla nostra economia danni molto maggiori dei vantaggi immediati che ne verrebbero alle imprese".

 

Si sta profilando una sorta di partito anti Maastricht. Anche lei ha qualche perplessità sull’ opportunità della ratifica? "Premesso che il trattato presenta limiti e ombre, oggi puntare ad una sua modifica o peggio ad un ripensamento totale sarebbe un doppio suicidio. Si darebbe un colpo molto grave alla Comunità europea così com’ è, con effetti di disarticolazione e grandi difficoltà a ritrovare in futuro i consensi di paesi riottosi come la Germania e la Gran Bretagna. Inoltre una economia come quella italiana, senza Maastricht non sarà affatto liberata dai vincoli imposti dalla crisi; con le procedure previste dal trattato si può sperare in un embrione di governo europeo delle monete e delle politiche industriali; senza, varranno i rapporti di forza e il predomimio della Germania e della Bundesbank sarà anche più marcato".

 

Sui primi cento giorni del governo Amato la Cgil dà un giudizio durissimo. Ma a parte l’ idea del prestito forzoso che lei oggi lancia, non è singolare il vostro ripensamento sul blocco fino alla fine del ‘ 93 della contrattazione aziendale? "Anzitutto nessun ripensamento; la nostra firma sul protocollo di luglio è stata confermata. Abbiamo semplicemente ribadito che la Cgil non ha il potere di bloccare la contrattazione aziendale. Abbiamo, questo sì, l’ autorità politica per invitare le nostre strutture ad una rigorosa moderazione salariale. Se Luigi Abete ha il potere di decidere cosa farà la Fiat con i salari dei suoi dipendenti, tanto di cappello. Quanto all’ operato del governo, di fronte al colossale problema del debito pubblico, non vedo segnali di inversione di marcia.

 

Per esempio noi chiediamo la nominatività dei titoli, pubblici e privati, di nuova emissione, con l’ obiettivo in un futuro non troppo lontano di includerli nella denuncia dei redditi; e poi l’ abolizione del segreto bancario.

 

E sul terreno delle privatizzazioni di cominciare dall’ enorme patrimonio immobiliare di enti pubblici e Comuni, per metterlo sul mercato e trasformarlo in un grande prestito con tassi di rendimento moderati". E’ vero che i suoi rapporti con il numero due della Cgil, Ottaviano Del Turco, sono ultimamente peggiorati e che lei lo ha accusato di aver fatto da sponda a Giuliano Amato? "Io ho avuto l’ impressione che Del Turco prendesse molto alla leggera quello che io chiamo il ‘ male oscuro’ della Cgil e cioè il rischio che si ribalti nel sindacato tutto il malessere di una sinistra frantumata. Di qui la mia cordiale polemica con Del Turco, che non aveva ovviamente nulla di personale".

 

Se la malattia della Cgil è la mancanza di autonomia da partiti e fazioni, non è un cattivo esempio che lei vada da Occhetto alla vigilia del direttivo o che mezza Cgil il giorno dopo partecipi alla manifestazione organizzata dal Pds contro il governo e contro l’ accordo di luglio? "No. Io ho sentito telefonicamente persone di ogni parte. E se, come iscritto al Pds, parlo mezz’ ora col segretario del mio partito non vedo nessuna confusione di ruoli. L’ autonomia si misura sui fatti e i fatti dicono che semmai il direttivo Cgil ha contribuito a che la manifestazione del Pds non fosse contro l’ accordo di luglio; è poi un diritto dell’ opposizione battersi contro la politica economica del governo".

 

A proposito di sinistra frantumata, cosa pensa dell’ idea di Claudio Martelli di creare un nuovo partito che raccolga uomini di diversa estrazione come Segni, La Malfa e Occhetto? "E’ un’ idea generosa, che potrà vivere o morire a seconda del progetto concreto, chiaro che saprà darsi o no.

Come Cgil non siamo alla ricerca di un governo o di un partito amico. Il nostro miglior contributo sarebbe di fornire materiali di progetto ad una sinistra che ripensa se stessa. Con Del Turco pensavamo proprio per questo autunno di organizzare un grande seminario aperto a tutti i politici interessati ad un progetto comune. No, non ci abbiamo rinunciato, ma prima la Cgil deve avere al suo interno le carte in regola". Appunto: reggerà in Cgil l’ equilibrio appena trovato? "Voglio crederci, debbo crederci". –

 

 
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