La metamorfosi di Zelensky
Da Wody Allen ad Allend la metamorfosi di Zelensky – Bernard-Henri Valery, su La Repubblica, descrive un ritratto di un leader in movimento ricordando tre incontri ravvicinati. Zelensky, come le donne e gli uomini della Spagna della guerra civile, di Sarajevo o del Kurdistan ha dovuto imparare a fare la guerra senza amarla. Stephen King, scrittore americano, scrive «Ciò che molti di noi hanno imparato: non stai fermo se un bimbo grande ne picchia uno piccolo. Puoi prendere dei pugni ma è la cosa giusta da fare». Bernard-Henri Valery così inizia.
Non so se quando usciranno queste righe Volodymyr Zelensky sarà ancora in vita. Si sa che è a Kiev, circondato dai suoi generali, al riparo in un bunker che i Sukhoi russi stanno cercando. E abbiamo appena visto un video in cui sta senza casco, all’aperto, come un Churchill molto più giovane che cammina peri quartieri poveri di Londra in occasione dei bombardamenti tedeschi nel settembre del 1940. Ma so anche che figura al primo posto della kill list stilata, secondo la stampa inglese, dal Cremlino. E mi toma alla mente l’addio che ha rivolto, venerdì 25 febbraio, ai suoi omologhi incontrati in videoconferenza in occasione del vertice straordinario dell’Unione Europea: «Forse è l’ultima volta che mi vedete vivo».
Che cos’è la grandezza? La grandezza vera, quella grande, come l’ha insegnata la cavalleria europea? Forse è questa. Questo eroismo tranquillo e fiero. Questo aspetto da Allende alla vigilia dell’assalto alla Moneda da parte degli squadroni della morte di Pinochet. Quel modo in cui ha detto a Biden che gli offriva di farlo uscire dal paese: «Ho bisogno di munizioni, non di un taxi». E a Putin, questo Pinochet dei giorni nostri: «Potete provare a uccidermi, sono pronto: perché so che un’Idea vive in me e mi sopravviverà».
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La prima volta che l’ho visto era il 30 marzo 2019, alla vigilia del primo turno della sua strabiliante elezione, in un ristorante di pesce vicino a piazza Majdan. Avevo appena interpretato, all’università di Kiev, il monologo teatrale Lookingfor Europe, che all’epoca portavo in giro per le capitali europee. Era il mio amico Vlad Davidzon, uno degli ultimi giornalisti americani che siano rimasti in Ucraina, oggi, che aveva organizzato l’incontro. Volodymyr Zelenskyj era giovanissimo, una sorta di Gavroche in jeans, con scarpe da ginnastica un po’ ammaccate, una maglietta nera dal colletto liso, che aveva passato la notte a festeggiare l’ultima rappresentazione, in una pista da pattinaggio della periferia di Kiev trasformata in caffè-teatro, del Servitore del popolo, lo one man show che lo aveva reso celebre.
Avevamo parlato di Beppe Grillo, quell’altro cabarettista fondatore del Movimento 5 Stelle in Italia, a cui detestava essere paragonato. Avevamo parlato di Coluche, di cui conosceva poco la storia e di cui non comprendeva la piroetta finale, la rinuncia a presentarsi, «forse perché c’era un grande uomo in Francia, monsieur Mitterrand, e non aveva bisogno di sacrificarsi?». Di Ronald Reagan: di lui sapeva tutto; del resto aveva appena fatto la voce fuori campo di una docu- fiction trasmessa dalla catena 1+1, proprietà dell’israelo-ucraino Igor Koloymo- skyj, che passava per il suo “sponsor”, sull’incredibile destino di quel commediante di film western di serie B diventato un grande presidente.
Avevamo parlato di Putin, l’altro Vladimir, che era sicuro, il giorno in cui si sarebbero ritrovati faccia a faccia, di riuscire a far ridere come faceva ridere tutti in Russia: «Io recito in russo, sa; i giovani mi adorano, a Mosca; ridono a crepapelle ai miei sketch; la sola cosa …». Aveva esitato… Poi piegandosi sopra il tavolo e abbassando la voce: «C’è una cosa, però … quell’uomo non ha sguardo; ha degli occhi, ma non ha sguardo, o se ha uno sguardo e uno sguardo di ghiaccio, privo di qualsiasi espressione ». Ma l’altro argomento della nostra conversazione fu il suo ebraismo. Come avrebbe potuto un giovane ebreo, nato in una famiglia decimata dalla Shoah, nell’oblast di Dnipropetrovsk, diventare presidente nel Paese di Babij Yar? «Ebbene, è molto semplice», mi aveva risposto con una risata roca: «Ci sono meno antisemiti in Ucraina che in Francia; e soprattutto meno che in Russia, dove a forza di cercare la pagliuzza nazista nell’occhio del vicino si finisce per non vedere più la trave nel proprio; in fondo, non sono state delle unità ucraine dell’Armata Rossa a liberare Auschwitz?». (…) per proseguire aprire l’allegato
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