Tasse, come in Svezia, servizi come…in Italia. E’ un articolo di Nicola Cacace apparso sulle note on line ( www.isril.it) dell’Istituto di Studi sulle Relazioni Industriali e di Lavoro (ISRIL) diretto dal prof. Giuseppe Bianchi. Riproduciamo integralmente questo chiaro e didattico articolo e consigliamo di visitare periodicamente il sito dell’Isril.
Tre episodi recenti hanno riguardato le tasse in differenti paesi, America, Germania ed Italia.
Il presidente Barak Obama ha attaccato le grandi banche ed ha varato un piano per tassarle, perché colpevoli di scarsa sensibilità per gli aiuti ricevuti dallo Stato, compresi i Bonus “osceni” dei dirigenti, coinvolgendo anche banche europee molto attive in America.
In Germania la stampa ha dato risalto ad un sondaggio svolto nel quadro dello scontro tra i componenti della coalizione di governo sulle tasse, che ha dato ragione alla Merkel: Il 58% dei tedeschi ritiene “immorale” abbassare le aliquote Irpef, come chiesto dai liberali, per due motivi fondamentali, si avvantaggerebbero i contribuenti più ricchi e si impoverirebbe il Welfare tedesco.
In Italia Berlusconi, che aveva annunciato una riduzione e semplificazione dell’imposta personale, portando le aliquote Irpef da 5 a 2, ha fatto marcia indietro 24 ore dopo, causa la crisi economica e le proteste di Tremonti. In tutto il mondo il centro dello scontro politico tra conservatori e progressisti verte sul ruolo dello Stato e quindi sulle tasse, tra chi invoca uno Stato minimo e conseguente bassa pressione fiscale e chi vuole uno Stato fornitore principale di servizi di base con pressione fiscale proporzionata.
Per fare esempi pratici la Svezia, il paese col miglior livello di Welfare e servizi pubblici, ha una pressione fiscale record del 52% del Pil, la Francia è al 45% e l’Italia al 42%, mentre gli USA, paese col più basso livello di servizi pubblici garantiti ha una pressione fiscale del 30%. Tutti promettono di abbassar le tasse, ma nessuno spiega la vera alternativa: “meno tasse significa meno Welfare”. Invece i politici in Italia, anche a sinistra, sono indecisi.
E questo è parzialmente spiegabile alla luce di una evasione fiscale record mondiale, sul 20%, pari a 100 miliardi di euro mancanti allo Stato, 10 volte una Finanziaria. Evasione che fa contribuisce a far dell’Italia, oggettivamente, il paese con la più alta pressione fiscale reale, calcolata rapportando le entrate pubbliche (imposte dirette, indirette e contributi sociali) al Pil. A quale Pil? Non a quello che vien fuori dagli scambi monetari di beni e servizi registrati dalla Contabilità nazionale, ma a quello, aumentato del 20% per tener conto dell’economia sommersa. In realtà la pressione fiscale del 42% del Pil sale al 52% se si rapportano le entrate al solo Pil prodotto da “quelli che pagano le imposte” (che è inferiore del 20% al Pil ufficiale).
La realtà è che gli italiani (che pagano le tasse), pagano come gli svedesi, ma hanno servizi incommensurabilmente più scarsi. Anche la pressione fiscale in se, non dice molto. In Italia potrebbe aumentare dall’attuale 42% al 45% e anche più, senza alcun aumento di tasse ed imposte, semplicemente con una modesta riduzione dell’evasione. Anche per questo appare ridicola ed indicativa di sottocultura la polemica tra i partiti sulle variazioni di questo rapporto (la pressione fiscale è aumentata, no è diminuita), quando non motivate da sostanziali variazioni sottostanti, del tipo, abolizione dell’Ici, riduzione della progressività, abolizione tassa di successione, scudo fiscale, etc..
Quanto alle aliquote Irpef va detto che nessuno, tra i grandi paesi industriali, all’infuori della Russia, ha solo 2 aliquote, perché in tal modo si cancellerebbe quella progressività delle imposte, valore fondante di tutti i paesi civili, come della nostra Costituzione (art. 53, “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).
Questo non significa che non possa ridursi la pressione fiscale individuale a patto di:
a) ridurre l’area dell’evasione;
b) mantenere una progressività decente delle aliquote Irpef che faccia pagare di più i ricchi nel paese dove, come diceva Rino Formica, alludendo al debito pubblico confrontato con la grande ricchezza delle famiglie (secondo Banca d’Italia è pari a 6 volte il Pil, record europeo, ma è concentrata nelle mani del 10% delle famiglie) “il convento è povero ma i frati sono ricchi”;
c) riequilibrare il rapporto tra imposte individuali da lavoro e finanziarie, queste ultime oggi favorite da un’aliquota del 12,5%, veramente “oscena”, in base alla quale un redditiero paga meno della metà delle imposte di un operaio.
Lo slogan della destra “meno tasse per tutti" va specificato facendo chiarezza sulla relazione tra entrate e Welfare e spiegando che quello slogan in realtà significa "meno tasse per i ricchi e meno Stato sociale per tutti".
Nessun paese al mondo con sanità ed istruzione come diritti universali ha una pressione fiscale inferiore al 40%. Oggi in Italia le entrate per imposte dirette sono già inferiori a quelle delle imposte indirette, il che implica una riduzione di progressività, in quanto le imposte su benzina, alcol, giochi, sigarette, etc. sono già pagate, in proporzione, più dai poveri che dai ricchi. Cosa, purtroppo, incredibilmente dimenticata dall’amico Bonanni quando ha proposto di spostare dal lavoro ai consumi il carico fiscale.
Nella realtà è possibile ridurre la pressione fiscale individuale senza ridurre il Welfare a due condizioni:
1- semplificando le procedure, anche riducendo le attuali 5 aliquote IRPEF a 4 o a 3, con esenzione totale al disotto di certi redditi,
2 – combattendo con pene severe l’evasione fiscale (il contrario di quanto fatto dalle leggi varate dai governi di destra dal 1994 ad oggi).
Tertium non datur
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