Da tempo siamo usciti dagli anni di piombo. Non c’è più la paura di allora, ma non per questo si sono dileguate le nubi sulla vitalità della nostra democrazia e sulla sicurezza economica dei lavoratori. Non si può neppure dire che gli operai abbiano ripreso la parola, se si sentono spinti a salire sui tetti per essere ascoltati.
Avevo sui 25 anni quando il vento del terrorismo soffiava sulle fabbriche e mi tormentava. Ero contro le BR ma non stavo con l’apparato dello Stato. Ero avvinto alla Costituzione, ma mi trovai incasellato d’ufficio nella schiera degli aderenti allo slogan “Né con lo Stato né con le BR”. Gli zelanti militanti del PCI mi appiccicarono quell’etichetta. Sapevano benissimo che non era vera, ma allora non si badava troppo per il sottile.
In quel tempo, militavo nella cosiddetta nuova sinistra. Contrastavo chi si limitava a dire che erano “compagni che sbagliano” coloro che entravano nella clandestinità ed impugnavano le armi. Non mi convinceva neppure la condanna della violenza minoritaria e ‘sbagliata’ (quella dei ferimenti e degli agguati omicidi) e la comprensione per quella “giusta” perché “di massa” dei cortei.
Capivo che la violenza non poteva possedere una sua peculiare moralità interna a seconda della sua causa e in ragione del numero di coloro che la esercitavano. I conti non mi tornavano. Pensieri tormentati quando avvenivano episodi di intolleranza e di coercizione a margine dei cortei. Alcuni minimizzavano e li consideravano una sorta di accadimenti ludici un po’ maneschi. Altri come gesti risarcitori di passate umiliazioni (angherie di capi) o sanatorie per troppe defezioni (crumiri). I modi spicci con cui si toglievano le donne dalle sedie della selleria mi imbarazzavano perché ad usarli erano (anche) quelli che si sarebbero sentiti rassicurati quando l’indomani “l’Unità” avrebbe attribuito quegli episodi a “isolate frange estremistiche che non hanno nulla da spartire con il movimento sindacale”.
Non era così. Quegli episodi e quelle tensioni stanno dentro e attorno alla nostra storia operaia. Allora, rimuoverli ridimensionandone il significato sembrava il modo più efficace di combatterli.
Capii dopo che il corteo più bello non aveva come obiettivo “crumiri” da spazzare, perché aveva saputo conquistare cuori e menti dei lavoratori con la trascinante forza dei suoi buoni motivi. Fu così per un certo tempo, soprattutto grazie all’opera di una minoranza intelligente che non cessava di avere fiducia nell’unità che nasce dal dialogo alla pari fra diversi, senza pretendere di omologarne il pensiero, di farli diventare uguali a noi, o di guidarli con “l’egemonia”. Il confronto più serrato mirava a conquistare la solidarietà e non assolveva chi disertava quelle lotte che cercavano il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro per tutti.
La cultura cattolica che mi aveva formato ed ebbe il merito di tenermi alla larga dalle suggestioni barricadiere.
Ma, allora, la mia reale debolezza era quella di essere troppo, troppo convinto di avere la giusta linea. Diventai più forte, più maturo, articolato nel pensiero, nei momenti difficili del ripiegamento, solo quando seppi riconoscere che avere la linea non era così decisivo. Meglio resistere ed ascoltare piuttosto che la fuga in avanti o la rinuncia.
Ad onor del vero, non solo nel movimento sindacale, ma proprio negli ambienti comunisti (eretici o ortodossi) ebbi degli ottimi maestri e non basterebbero le dita delle mani per farne un elenco giusto e completo.
A dispetto dello stereotipo confezionato dalla vulgata che “ignorava il passato prossimo e quello remoto” della nostra Repubblica e considerava la Resistenza un’esperienza che poco aveva da insegnare alle lotte sociali, essi mi spiegarono che dovevo stare attento. La violenza era una scorciatoia che portava in sottoboschi sconosciuti e spesso di fronte a baratri. Il movimento operaio doveva smettere di pregare santi in paradiso o di aspettare in terra un Robin Hood o un San Giorgio capace con le sue mani di uccidere il drago capitalista.
Insomma, niente spallate o volate fortunate, ma solo una lunga e paziente marcia con più salite che pianure. Erano riformisti e ci sembravano un po’ noiosi, ma avevano ragione da vendere proprio quando rifiutavano le ipotesi rivoluzionarie ricalcate su modelli ampiamente falliti, di cui la causa sarebbe sempre da ricercarsi – sostenevano i neo-rivoluzionari di quel tempo – tra i burocrati ed “i traditori” dei puri ideali.
In questi giorni, il libro di Paolo Andruccioli su Guido Rossa – che Ediesse ha pubblicato in un cofanetto con il film di Giuseppe Ferrara – riapre in me una riflessione, una ferita mai cicatrizzata. I pensieri ritornano su quelle due e tre cose che allora mi rendevano inquieto. C’erano spezzoni di aree operaie e giovanili nelle quali il brigatismo rosso ricercava ed otteneva un consenso in forza del mito sempre a disposizione del gesto esemplare violento che ne colpiva uno per educarne cento. Lì esercitava il suo proselitismo per conquistare simpatizzanti e neo-brigatisti. C’era anche un’area grigia operaia, ondeggiante tra la passività e la non percezione del reale pericolo, che si collocava su un’apparente neutralità con un distaccato commento: “se l’hanno colpito, qualcosa di negativo avrà fatto”. La stessa area grigia, di fronte al licenziamento di un lavoratore, pur di non schierarsi, sceglieva di autoconvincersi che “se l’hanno licenziato, qualcosa di vero ci sarà”.
Abbiamo trascurato l’area grigia di quei soggetti smarriti che ci siamo poi trovati contro nelle battaglie contro i tagli dell’occupazione. Come sindacato, come Consiglio dei delegati, abbiamo contrastato il terrorismo con iniziative ex-post, dopo un loro attentato, un gesto intimidatorio o dimostrativo. Siamo stati sempre pronti ex-post, con comunicati e volantini privi di tentennamenti, denunciando che quelle gesta erano contro il movimento operaio e la democrazia. L’intervento ex-post è diventato man mano frustrante, ritenuto di scarsa utilità come lo sciopero dopo un attentato. Quelle risposte canoniche ci hanno alla fine logorato e non ci hanno consentito di toccare le giuste corde per fare scattare il senso di responsabilità di ogni lavoratore nella vigilanza e nell’attività di prevenzione per togliere l’acqua in cui nuotava il simpatizzante brigatista.
Questo è stato il rovello di quei tempi, in parte allora sottaciuto. Questo è il rovello che ritorna quando ripenso a quel terribile periodo.
In quel contesto si calarono senza mezzi termini gli appelli del PCI e di parte delle istituzioni. La Presidenza della Regione con Dino Sanlorenzo ci chiedeva di non indugiare e di segnalare alle autorità competenti ogni atto ritenuto sospetto sul posto di lavoro, nel condominio, nel quartiere, sul mezzo pubblico. Fu predisposto per tale finalità un questionario anonimo. La discussione si accese, fu non solo serrata ma anche aspra per le accuse, neppure troppo velate, di omertà rivolte a chi dissentiva verso quel metodo che poteva favorire le più assurde rivalse e delazioni non ispirate all’antiterrorismo.
L’equivoco fu colossale e distruttivo. A Torino il leader della Cisl Cesare Delpiano e il magistrato Giangiulio Ambrosiani, con molti altri, si schierarono contro quel questionario per le denunce anonime. Dopo animate riunioni si trovò una soluzione unitaria: il questionario proposto dalla Regione fu utilizzato per una parte ed affiancato da un questionario sindacale che invitava alla vigilanza antiterroristica con l’assunzione di responsabilità collettive degli organismi di fabbrica, con segnalazioni degli stessi alle Segreterie Provinciali Territoriali che a loro volta avrebbero informato i competenti livelli della Magistratura. Si era coscienti nei Consigli di fabbrica, nel sindacato che il terrorismo poteva essere sconfitto con l’attivazione di tutte le energie democratiche, non con i silenzi del movimento e neppure con la militarizzazione della vita quotidiana. Non fu per nulla semplice spiegare a centinaia di delegati e a migliaia di lavoratori in assemblea che la scelta propugnata unitariamente dal sindacato torinese era necessaria e saggia. Eravamo giovani irrequieti e combattivi, con in testa il pescatore di Fabrizio De Andrè che, all’ombra dell’ultimo sole, rifiutò di dire ai gendarmi il nome dell’assassino venuto alla spiaggia. Fu un dibattito accesso che ci fece maturare e comprendere la differenza tra delazione anonima e responsabilità collettiva nella segnalazione di atti in odore di terrorismo. La responsabilità collettiva era il solo antidoto alla paura generata dal minaccioso linguaggio e dagli attentati del diverse sigle del “terrorismo rosso”.
E’ stata una dura esperienza. Siamo invecchiati precocemente. Mi spiace molto che la ricostruzione di Paolo Andruccioli non dedichi a questo tormentato periodo della vita torinese l’attenzione che meriterebbe.
E mi spiace che il libro dedichi a Vincenzo Gagliardo, che fece parte del commando brigatista nell’assassinio di Guido Rossa, una nota striminzita. Ora è in semilibertà dopo 33 anni di carcere. Guagliardo ha percorso un lungo tragitto di riconversione personale alla ricerca di un senso per una nuova fase della sua vita. Ha condotto, insieme alla moglie Nadia Ponti, una battaglia senza clamori per il riconoscimento del diritto dei detenuti all’affettività, rinunciando al “premio” dei permessi di uscita. Ha elaborato in quattro libri (“Il vecchio che non muore” del 1991, “Il MeTe imprigionato” del 1994, “Dei dolori e delle pene” del 1997 e “Di sconfitta in sconfitta” del 2002) una critica originale delle istituzioni “totali” che segregano ma non riabilitano. Un detenuto che espia la sua colpa, che non ha utilizzato il pentimento da pubblicizzare con lo scambio giuridico per la riduzione della pena. Un detenuto che Sabina Rossa, la figlia del sindacalista ucciso, ora parlamentare del partito democratico, decide di incontrare e poi di chiederne la scarcerazione. Un detenuto così a chi altri può interessare? Non al Tribunale di sorveglianza che in poche pagine liquida la richiesta di scarcerazione perché il “ravvedimento” non è avvenuto secondo il rituale degli ordinamenti giudiziari che richiedono una “esternazione” più “sincera e disinteressata”.
Interessa a me che sono un compaesano di Vincenzo. L’ho visto tornare a None per il funerale dei suoi genitori. E’ una storia che non mi dà pace e non ci posso fare niente. Mi spiace che Paolo Andruccioli non abbia aperto una riflessione: trentatre anni di carcere non bastano per il fine pena?
P. ANDRUCCIOLI, Il testimone, Ediesse, 2009, euro 20.
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