Attaccare armati ed uccidere volontari in soccorso al Palestinesi – angariati da anni con un soffocante embargo da parte del governo israeliano, ufficialmente motivato per impedire che giungano armi per Hamas – è l’ultimo, sconsiderato, indiretto atto di arrogante violenza – che ha avuto questa volta per vittime pacifisti turchi – nei confronti di un popolo già martoriato e sofferente. Non si capisce quale siano i vantaggi che pensano di trarre i governanti israeliani da tale politica: un governo già isolato per aver continuato gli insediamenti illegali in Cisgiordania, e giunto per ciò in rotta di collisione con il grande paese amico, gli Stati Uniti.
La rottura con Obama non è ancora rottura con la politica degli Stati Uniti, dove tuttavia salgono proteste da parte di gruppi di ebrei contrari alla politica israeliana di chiusura al negoziato, e contrari agli insediamenti di coloni nei territori della Cisgiordania occupati nella guerra dei “Sei Giorni”. Ora però, dopo il criminale attacco israeliano alle navi degli aiuti ai palestinesi, anche gli Usa corrono il rischio di essere travolti dall’ondata di sdegno del mondo intero, per questo nuovo massacro di innocenti da parte del suo maggior alleato dell’area, giocandosi così prestigio e consolidate alleanze nei Medio Oriente. Specialmente nei confronti di quei paesi moderati, che pure avevano da tempo stabilito relazioni diplomatiche con il paese ebraico, come Egitto e Giordania, e che potevano estendersi alla Siria. Nell’intervista del presidente siriano, Assad, di lunedì 14 maggio, si erano infatti affacciate prudenti, ma fondate ipotesi di possibili negoziati globali, che comprendessero i diritti dei palestinesi e la restituzione delle Alture del Golan, territori siriani occupati da Israele nel 1967.
Con l’attacco ai pacificasti tutto ciò va a farsi benedire. Ma è soprattutto con la Turchia, il paese che piange le vittime della violenza dei militari israeliani, che si rischia ora l’irrimediabile: la rottura delle relazioni diplomatiche con lo stato di Israele. Da sempre fedele paese della Nato, respinto dall’Unione Europea e tentato anche per questo a giocare un maggior ruolo di media potenza nel Medio Oriente, sarà ora difficile per il governo turco contenere la rabbia della popolazione e impedire che il paese volti le spalle all’Occidente. Era stato il primo paese a riaprire le relazioni diplomatiche con Israele, cui erano seguiti gli altri paesi, arabi. Dopo l’accordo con Lula e Ahmadinejad di qualche settimana fa, con il quale si dichiarava di voler evitare di mettere il governo iraniano con le spalle al muro, ma negoziare un possibile accordo sul nucleare (quanto europei e americani non erano riusciti ad ottenere), la Turchia di Erdogan si era così ancora più spinta in avanti fino ad occupare un ruolo di protagonista sulla scena medio orientale.
Era infatti evidente che entrando a far parte di uno schieramento autonomo e concordato con gli altri paesi dell’area, e volto a contenere l’arroganza militarista israeliana, questo rappresentava la novità politica assoluta di questi primi anni del nuovo secolo. L’attacco alle navi dei pacifisti turchi complica ulteriormente – è persino banale dirlo – il quadro politico, e non sarà sufficiente quanto auspica, la pur coraggiosa e forte denuncia della politica israeliana di David Grossman, il noto e critico scrittore israeliano, e cioè finirla con la vergogna del blocco di Gaza: un milione e mezzo di innocenti palestinesi condannati alla fame per un solo soldato israeliano, Gilad Shalit, tenuto prigioniero da quattro anni.
Il rischio di un vortice incontrollabile di vendette e ritorsioni è immediatamente possibile. Già la sospensione della visita di Obama è un segnale del disagio americano ad avere un alleato che attacca a sangue freddo uccidendo pacifisti di un paese amico e fedele membro dell’Organizzazione Atlantica. Un interlocutore, la Turchia, del quale l’Occidente non può fare a meno dell’amicizia per qualsiasi iniziativa politica nel M.O.
In conclusione, il pessimismo è padrone in questo momento in cui si piangono vittime innocenti di un’aggressione violenta e senza plausibili ragioni di difesa. L’auspicio è impedire che un paese, che ha certo diritto di esistere, non utilizzi questo diritto per negare altri diritti, quelli dei palestinesi. Che le provocazioni, per quanto gravi, vengano rintuzzate per quello che sono, senza perciò produrre abnormi reazioni che impediscano di continuare a credere e ricercare la pace in quella sofferta area.
In allegato l’articolo di David Grossman pubblicato su La Repubblica del 1/6/10
Allegato:
La condanna della marionetta.doc
CORRIERE della SERA, 28/06/2010, Bernard-Henri Lévy " Il soldato Shalit è un ostaggio non un prigioniero di guerra " e la breve dal titolo " Via alla marcia per la liberazione ".
Perché tanta emozione a proposito del soldato Shalit? Non è forse destino delle guerre produrre prigionieri di guerra? E il giovane caporale carrista, rapito nel giugno del 2006, non è un prigioniero come un altro? Ebbene no. Intanto, esistono convenzioni internazionali che regolano lo status dei prigionieri di guerra, e il solo fatto che questo soldato sia tenuto nascosto da quattro anni, chela Croce Rossa , abituata a visitare regolarmente i palestinesi nelle prigioni israeliane, non abbia mai potuto farlo con Shalit, è una violazione flagrante del diritto della guerra. Soprattutto, non bisogna stancarsi di ripetere che Shalit non fu catturato nel corso di una battaglia, ma di un raid, effettuato in Israele e mentre Israele, che aveva evacuato Gaza, era in pace con il proprio vicino. Parlare di prigioniero di guerra, in altri termini, significa ritenere che, se Israele occupa un territorio o se pone fine a tale occupazione, il fatto non cambia in alcun modo l’odio che si crede di dovergli destinare; significa accettare l’idea secondo cui Israele è in guerra anche quando è in pace o che si debba fare la guerra a Israele perché è Israele. Se invece questo non si accetta, se si rifiuta la logica stessa di Hamas che, ammesso che le parole abbiano un senso, è una logica di guerra totale, allora bisogna cominciare con il mutare completamente retorica e lessico. Shalit non è un prigioniero di guerra ma un ostaggio. La sua sorte è simmetrica a quella di chi è sequestrato in cambio di un riscatto, non a quella di un prigioniero palestinese. Bisogna quindi difenderlo come vengono difesi gli ostaggi delle Farc, dei libici, degli iraniani: con la stessa energia impiegata, per esempio, per difendere Clotilde Reiss o Ingrid Betancourt.
Ostaggio o prigioniero, poco importa: perché tanto chiasso per un solo uomo? Perché simile focalizzazione su un individuo «senza importanza collettiva», un uomo «fatto di tutti gli uomini e che li vale tutti e che chiunque eguaglia»? Perché, appunto, Shalit non è uno qualunque e perché gli capita quello che talvolta succede, nei campi ad alta tensione della Storia universale, a individui che nulla predisponeva a simile destino e che, all’improvviso, captano tale tensione, attirano il fulmine che da essa si propaga, diventano i punti di incontro di forze che, in una determinata situazione, convergono e si oppongono. Così fu per i dissidenti dell’era comunista. Così è per i cinesi o i birmani perseguitati oggi. Così è stato, ieri, per certe umili figure bosniache che una concentrazione senza eguali di avversità innalzava al di sopra di se stesse facendone degli eletti. Così è per Gilad Shalit, un uomo dal volto di bambino che incarna, suo malgrado, la violenza senza fine di Hamas; il retropensiero sterminatore dei suoi sostenitori; il cinismo degli «umanitari» che, come sulla flottiglia di Free Gaza, hanno rifiutato di farsi carico di consegnare una lettera della sua famiglia; o ancora: il fatto che, secondo il fenomeno del due pesi e due misure, Shalit non goda dello stesso capitale di simpatia, per esempio, della Betancourt. Un franco-israeliano vale meno di una franco-colombiana? Israele, come segno significante, basta a degradarlo? Per essere precisi, come mai il suo ritratto non è stato affisso, vicino a quello dell’eroina colombiana, sulla facciata del Municipio di Parigi? E come spiegare che, nel parco di un quartiere di Parigi dove alla fine è stata esposta, la sua immagine sia stata regolarmente e impunemente soggetta ad atti di vandalismo? Shalit, il simbolo. Shalit, come uno specchio.
Un’ultima questione: quella del prezzo che gli israeliani sono disposti a pagare per la liberazione del loro prigioniero e quella, connessa, delle centinaia — talvolta si parla di un migliaio — di potenziali assassini che di conseguenza sarebbero rimessi in libertà. Non è un problema solo di oggi. Già nel 1982, Israele liberò 4.700 combattenti reclusi nel campo Ansar, in cambio di 8 dei suoi soldati. Nel 1985 ne lasciò andare 1.150 (fra cui il futuro fondatore di Hamas, Ahmed Yassin) in cambio di 3 dei suoi. Senza parlare dei corpi, solo dei corpi, di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, uccisi all’inizio dell’ultima guerra del Libano, che furono barattati, nel 2008, con prigionieri di Hezbollah, alcuni dei quali erano oggetto di pesanti condanne! L’idea, la duplice idea, è semplice, e fa onore a Israele. Contro la crudeltà delle famose ragioni di Stato, contro il meccanismo dei mostri freddi che sono gli Stati e la loro terribile pigrizia — all’opposto delle gelide intransigenze al cui proposito Leonardo Sciascia non temeva di dire, all’indomani del rapimento di Moro da parte delle Brigate rosse, poi dell’abbandono dei suoi «amici», che esse sono un altro volto del terrorismo— c’è questo imperativo categorico, che non ammette replica: fra l’individuo e lo Stato, scegliere sempre l’individuo; fra la sofferenza di uno solo e i turbamenti del Grande Uno, lasciar sempre prevalere l’uno singolo; un uomo non vale forse niente, ma niente — e soprattutto non l’orgoglio spaccone, da pallone gonfiato, del Collettivo— giustifica che si sacrifichi un uomo. Poi, contro uno pseudo «senso del tragico» che serve da alibi a tante viltà, contro i dialettici da strapazzo che chiosano all’infinito sui possibili effetti perversi che, in tempi più o meno lontani, un gesto o un altro (in questo caso la salvezza di un Daniel Pearl in potenza) potrebbe provocare di fronte a una situazione di cui ignoriamo tutto, citiamo questo principio d’incertezza che è al centro della saggezza ebraica e che l’Ecclesiaste riassume stupendamente: a ciò che va oltre il tuo operare, non ti mescolare, nell’ignoranza in cui ti trovi del regno degli scaltri e delle sue astuzie, salva intanto il soldato Shalit.
" Via alla marcia per la liberazione "
GERUSALEMME— Noam e Aviva, i genitori del soldato Gilad Shalit, da 4 anni prigioniero di Hamas a Gaza, sono partiti ieri dalla loro casa a Mitzpe Hila, in Alta Galilea, per una marcia di 12 giorni che avrà termine a Gerusalemme davanti alla residenza del premier Netanyahu. Premono sul governo perché arrivi a un accordo per il rilascio di Gilad. Alla marcia ieri hanno partecipato 10mila persone.