150 ORE: ESPERIENZA DEL PASSATO ? – t.ferigo – scuola & sindacato 5/12/11
Francesco Lauria, operatore nel settore mercato del lavoro della CISL, ha scritto un libro utile ed interessante ,” 150 ore per il diritto allo studio” ( Ed. Lavoro). Abbiamo già pubblicato due recensioni su questo sito perchè è un libro utilissimo, contiene tutto ciò che occorre sapere: contratti,analisi,testimonianze. Interessante perché offre un’occasione di dibattito su una delle esperienze simbolo degli anni 70. Un caso eccezionale che non ha più nulla da dirci ? Non credo.
Ne sono esempi le testimonianze, riflessioni, analisi e anche “punzecchiature” dei protagonisti riportate nella ricerca di Lauria. Alle loro aggiungo le mie.
Quali i motivi del loro successo ?
Quali quelli del loro progressivo decadere ?
Sono un’esperienza datata ?
Oggettività come situazione reale, non oso dire materiale ( sarei accusato d’ideologismo ), a cui ci richiamano le osservazioni di Tullio DeMauro e Franco Bentivogli sulla condizione formativa di milioni di persone, sull’analfabetismo di massa nella società italiana, sui ritardi della scuola. Le analisi ricordate da Lettieri sui cambiamenti dei modelli d’organizzazione del lavoro, l’estensione del Taylorismo, le sue conseguenze a livello sociale e culturale.
I cambiamenti culturali che hanno segnato gli anni 60, definiti bastardi dall’ex ministro Sacconi e non simpatici al segretario della CISL. “ Lettera ad una professoressa “ fu commentato con entusiasmo anche dai Quaderni Piacentini. In parrocchie, come quella in un quartiere d’operai immigrati di Torino, dove viveva chi scrive, si organizzavano scuole popolari richiamandosi a Freire, come ci ricorda Manghi. Circolavano letture come “ Marxismo e Cristianesimo “ di Giulio Girardi, agli annuali incontri delle ACLI a Vallombrosa si discuteva di società dei consumi e disuguaglianze, i giovani aclisti facevano inchieste sul lavoro minorile e la relazione di Bruno Trentin ad un convegno dell’Istituto Gramsci era materiale di formazione insieme alla ricerca di A. Touraine alla Renault, si riscopriva Mounier e il personalismo. Insomma era oggettivo il mescolarsi di culture, il venir meno d’identità congelate, la ricerca di strumenti d’analisi rinnovati e di proposte all’altezza della sfida del tempo, e infine il lavoro come riferimento imprescindibile per l’azione sociale.
Le 150 ore furono anche il prodotto di tutto questo. Un’esperienza, pertanto, non ripetibile negli stessi termini, come è per tutte le vicende umane. Straordinaria nella sua eccezionalità. C’è il rischio data l’inevitabile nostalgia che sorge dalla memoria ,che il lettore non anziano del libro di Lauria possa derivare queste conclusioni e lo riponga nello scaffale dell’istituto storico. Sarebbe un peccato perché le 150 ore furono possibili anche grazie ad un modello e una cultura sindacale che, con i debiti aggiornamenti, sarebbe assai utile nella crisi attuale. Discutendo di loro si può discutere di oggi.
Come ricorda Manghi la sinistra sindacale, trasversale per sua natura, ebbe una parte di rilievo ed un appassionato impegno, “ va ricordato che le 150 richiedevano un alto tasso d’unitarietà”. Fu possibile conquistarle e gestirle grazie alla cultura dell’unità. Non poteva essere altrimenti certo, ma non solo. Un certo tipo d’unità. Cultura che non si riassume nello slogan “ uniti si vince”, ma nell’agire stesso del sindacato, oserei dire nella sua essenza. Unità come stella polare, direzione di cammino, orizzonte, superamento d’identità sclerotizzate e d’appartenenze a sub culture politiche e metodo per affrontare, rispettandole, le diversità
Frutto di un conflitto innanzitutto culturale, il famoso clavicembalo, furono anche la via per uno straordinario incontro tra mondo operaio, la fabbrica e la società.
Come ricorda Stefano Musso era diffusa tra i fruitori delle 150 ore, l’esigenza di recuperare quello che il lavoro taylorista gli toglieva. Nella frase dell’operaio che dice “ Per carità professore della produzione ne parliamo tanto in fabbrica qui vorremmo dedicarci ad altro” vi è la richiesta di una conoscenza che umanizzi una condizione dequalificata dal lavoro taylorista. Una conoscenza che sia diritto, il clavicembalo appunto, e che abbia nel sindacato lo strumento per la sua realizzazione. Mi ricordo di una discussione sulla esistenza o meno di una cultura operaia. Tema che appassionava non pochi docenti e intellettuali. Ad un certo punto intervenne un lavoratore e lesse un brano dove si negava l’esistenza di una cultura proletaria e si criticava l’adulazione nei confronti della classe operaia. Ad un certo punto della lettura saltò fuori il termine futurismo. Era un pezzo di Trosky titolato “Non di sola politica vive l’uomo”. Dove l’aveva trovato. In un corso 150 ore all’università.
Il tempo delle 150 fu anche il quello delle grandi riforme richieste dal sindacato, non solo dei contratti: la sanità, la casa, il fisco, le pensioni. E fu anche il tempo di crisi profonde del sistema economico: basti ricordare lo shock petrolifero. Temi complicati, non affrontabili solo con facili slogan, richiedevano formazione, studio. Le 150 servirono anche a questo. “ Finalmente ci capisco qualche cosa “, mi disse un delegato a proposito del sistema sanitario e la salute in fabbrica. Una formazione in un tempo liberato da un lavoro “ che può fare chiunque soprattutto se analfabeta”
Non sono state il cambiamento di situazioni oggettive causa del loro deperire. Se si può parlare di società post tayloristica, non vuol dire che il lavoro diviso, alienante sia scomparso o si sia tutto trasferito altrove, in Cina e dintorni.
Parti del ciclo produttivo sono ancora o sono tornate ad essere fordiste non solo nel settore industriale. L’analfabetismo linguistico continua ad essere drammaticamente diffuso come ricorda De Mauro nella postazione. La voglia di cultura è forse diminuita ma non scomparsa.
Nella “società dell’informazione” circolano più disinformazioni, propaganda, semplificazioni populiste. La caratteristica del nostro tempo paiono essere le parole vuote, le messinscena alla TV, le battute. Manghi scrive che “oggi la formazione è troppo legata alla retorica della occupabilità”.
Un sindacalismo diviso, identitario ( è arrivato anche il sindacato cattolico senza che nessuno l’abbia deciso ), incapace di proposte e azioni unitarie, che si pone l’obiettivo di “uscire dal
T.F
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