Lontani dagli occhi
Pierre Carniti ha guidato la Fim-Cisl e poi la Cisl per un progetto di sindacato che rendesse protagonisti e responsabili i lavoratori sia nella contrattazione collettiva sia per la strategia confederale, orientate al cambiamento della società attuando quei principi della Costituzione, spesso disattesi se non offesi dalla legalità, cioè da specifiche norme vigenti. Per questa finalità ha sempre insistito sul concetto che “..Circoscrivendo il compito e il ruolo del sindacato ai salari e alle condizioni di lavoro, il sindacalismo confederale perde gran parte della sua ragione d’essere…e non riuscirà neppure a difendere il potere d’acquisto reale dei salari e delle pensioni”.
Per unire in un orizzonte comune la strategia confederale deve perseguire i valori dell’eguaglianza e della giustizia sociale, il riscatto con e nel lavoro, porsi i problemi degli esclusi, dei “senza voce”, della frantumazione sociale e degli “invisibili” del lavoro in quanto irregolari, e poi di coloro che vivono o lavorano in luoghi di segregazione. Una strategia sindacale dalla quale, da tempo, la Cisl – ma non solo – ha preso le distanze confinandola agli archivi della storia sindacale. Per ritornare ad un protagonismo sociale del sindacato gran parte di quella strategia rimane attuale e deve ritornare per riappropriarci e fare fronte a realtà (e confrontarsi anche con quelle che contengono episodi di antagonismo violento) richiamati nei due raccontidi Marianna Aprile, qui postati.
Il primo – Lontani dagli occhi – Marianna Aprile inizia il racconto con questa citazione «Ho sempre desiderato andare in carcere. Il proprio Paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio.» rilasciata da Goliardo Sapienza * a Enzo Biagi nel 1984.

Così prosegue «Ammetto di averci creduto, ma è durato poco. Era il 22 ottobre 2022 e stavo seguendo il giuramento al Colle del governo guidato da Giorgia Meloni, che aveva da poco vinto le prime elezioni politiche autunnali nella storia della Repubblica. Al termine della cerimonia, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, fresco di «giuro sulla Costituzione», si era attardato coi giornalisti subito fuori dal Quirinale per qualche dichiarazione. Fu in quel momento che lo sentimmo dire: «La velocizzazione [dei tempi della giustizia, N.d.A.] avviene con la depenalizzazione. Quindi va eliminato il pregiudizio secondo cui la sicurezza, o la buona amministrazione, siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero. L’abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto per quarantanni i pubblici ministeri».
Nelle settimane precedenti, con Luca avevamo raccontato ogni giorno la campagna elettorale eccezionalmente estiva che aveva portato la leader di Fratelli d’Italia a Palazzo Chigi (era la prima edizione di In onda che conducevamo insieme). La prima donna premier l’avevamo vista arrivare, eccome. E
così i suoi ministri. A causa di una vecchia ossessione che ho per le carceri (anche per i manicomi, in realtà, ma cercherò di non divagare), ero rimasta colpita dalla scelta di Nordio come ministro della Giustizia: il garantismo per il quale era noto mi pareva in netto contrasto con il giustizialismo di due dei partiti della coalizione di governo, Fratelli d’Italia-e Lega. Nel 2004, per dire, l’allora magistrato veneto aveva anche guidato una commissione parlamentare per la riforma del codice penale che aveva indicato il carcere come soluzione estrema e puntava decisamente su pene alternative e percorsi di rieducazione. Insomma, che c’entrava Nordio con i «bisogna buttare via la chiave» che Salvini twitta ogni volta che una persona dalla pelle appena un po’ più scuretta della sua è sospettata di un reato? In apparenza, nulla. E quelle sue prime dichiarazioni da ministro parevano confermarlo.
Ma per verificare una volta di più che delle apparenze è meglio non fidarsi mai sono bastati nove giorni e un rave party. Sulla scia delle polemiche per un raduno musicale nel modenese, il 31 ottobre del 2022 il governo vara un decreto che istituisce – semplifico – il reato di rave party, appunto, per «dare un segnale di uno Stato che non vuole dimostrarsi inerme di fronte alla violazione reiterata delle leggi» {sic Giorgia Meloni). Per chi organizza raduni musicali di questo tipo si prevedono intercettazioni, sequestri, multe e fino a sei anni di carcere. Ed è pure una versione emendata del decreto iniziale, che di fatto criminalizzava qualsiasi raduno con più di cinquanta persone (ma dico, ci siete mai stati a un matrimonio a sud di Roma?).
Il «decreto rave» si sarebbe presto rivelato solo il primo di tanti con cui, a seguito di casi di cronaca, si sono istituiti nuovi reati o inasprite le pene per quelli esistenti. Dopo arriveranno il decreto Cutro, il decreto Caivano, il decreto Amarena (creò il reato di «uccisione di orso marsicano», dopo le polemiche sulla morte dell’orsa Amarena a San Benedetto (…)
*) (…) Aveva ragione Goliarda Sapienza. Lei in carcere, a Rebibbia (Roma), ci era finita a cinquantacinque anni per aver rubato gioielli a ima sua cara amica e (per rivenderli) l’identità a sua cognata. Verrà poi assolta ma a quell’esperienza dedicherà L’università di Rebibbia e La certezza del dubbio, oltre ad alcune riflessioni senza tempo. Come la sintesi con cui inizia questo capitolo: «Il proprio Paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio». Ecco. Che Paese è quello che raccontano le nostre carceri? (…) per proseguire aprire l’allegato
Il secondo – Ci sta il male fuori – Marianna Aprile inizia ancora con una citazione, di Gianluca Guida, direttore dell’Ipm di Nisida «Si sentono scartati, rivendicano un ruolo, ma non avendo gli strumenti per farlo mettono in campo un’affermazione violenta di sé. E una forma deviante di ricerca della felicità.» e così prosegue « Il sistema penale minorile italiano era un modello europeo, era ritenuto virtuoso, funzionava. Poi, nell’estate del 2023, arriva il decreto Caivano, a seguito di un orrendo stupro di gruppo ai danni di due cuginette avvenuto nel Parco Verde di quella periferia di Napoli. E le cose cambiano. Si inizia a parlare di emergenza criminalità minorile (non c’era e non c’è, lo dicono i numeri), a invocare interventi radicali. Il governo avvia un progetto di recupero di Caivano e Giorgia Meloni «impone» un pellegrinaggio dei suoi ministri, a turno, in quella periferia perché sia plastica la presenza dello Stato. Ma a distanza di un anno e mezzo è ormai evidente quello che i più avveduti e meno ideologici dicevano già al momento della sua emanazione: il modello messo in campo dal decreto Caivano contro la criminalità minorile non solo non funziona ma peggiora la situazione. (…)
Per capire che sarebbe finita così sarebbe forse stato utile fare due chiacchiere con chi il mondo della devianza giovanile lo conosce bene, con chi ai ragazzi che si perdono e finiscono in carcere ha dedicato la vita. Per esempio Gianluca Guida, da quasi trent’anni direttore del carcere minorile di Nisida, uno dei diciassette Ipm d’Italia, quello che ha ispirato la serie Rai Mare fuori, anche se è molto diverso dall’Ipm che vediamo in tv (non ci sono le ragazze, per esempio: la sezione femminile è stata chiusa di recente; ora in tutta Italia ne è rimasta una a Roma, cui si aggiunge un istituto solo per ragazze a Pontremoli).
Guida è persona mite e dallo sguardo vivace, un misto di flemma e cazzimma partenopee. E figlio di due presidi e, dopo aver fatto volontariato in una periferia di Napoli e aver preso una laurea in Giurisprudenza, ha dedicato tutta la vita a questo istituto. Ci è entrato vincendo un bando per l’amministrazione penitenziaria e scontentando i suoi, che in carcere non ce lo avrebbero voluto neanche come direttore. Quando arriva sull’isola flegrea, da cui si posa lo sguardo su Procida, Ischia, Capri e sul profilo del Vesuvio che fa capolino dietro Posillipo, gli viene affibbiato un soprannome: ’O minorenne. Ha ventinove anni e trova una situazione disastrosa, tanto che l’Ipm di Nisida era appena stato bocciato da un’ispezione del Comitato per le torture. Guida e i suoi prendono in mano la situazione, aumentano il tempo che i ragazzi trascorrono fuori dalle celle e il numero delle attività utili a fargli prendere coscienza di sé e del loro percorso, a volersi bene nonostante il male. A riscoprirsi come persone. Poi aprono il carcere alla città, nella convinzione che il luogo della pena e quello della vita debbano comunicare, per poter gettare le basi perché chi la pena l’ha scontata possa poi tornarci, a quella vita. Nell’Ipm si cominciano a organizzare rappresentazioni teatrali aperte al pubblico, laboratori, un centro polifunzionale per la prevenzione del crimine minorile, incontri tra i ragazzi detenuti e studenti che vanno dalle elementari all’università. Quando, tre anni dopo, il Comitato per le torture torna, indica l’Ipm ridisegnato da Guida come un modello per gli altri istituti.(…) per proseguire aprire l’allegato.
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- In allegato i testi completi dei due racconti tratti dal libro “Materiali resistenti – fare la cosa giusta in un paese che sbaglia-“ di Marianna Aprile e Luca Telese – Piemme –

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