Lettera di Sir Keynes a noi nipoti

Pubblichiamo due articoli che si riferiscono a due recentissimi libri: il primo, Il futuro. Storia di un’idea, contiene saggi di 55 autori; il secondo Strana vita, la mia” di Romano Prodi. Dal primo libro riproduciamo l’ estratto “Possibilità economiche per i nostri nipoti di John Maynard Keynes” di Ignazio Vizio, pubblicato su La Repubblica; sul libro di Prodi pubblichiamo l‘articolo commento di Luciano Capone, su Il Foglio, che prende spunto – stupendosi molto – dall’affermazione critica del professore verso “35 anni di liberismo”.

Stralcio della riflessione di Visco sul grande economista, i giovani e il futuro – (…) Contro il forte pessimismo, nel pieno della Grande Depressione, sulle prospettive economiche del Regno Unito Keynes offre una visione molto positiva del futuro. “La depressione che ha investito l’intero pianeta \[…\] ci impedisce di vedere sotto la superficie, e di capire dove stiamo andando.” Propone quindi come “antidoto alla miopia \[…\] una rapida incursione in un futuro ragionevolmente lontano” e si chiede: “Che livello di sviluppo economico \[…\] possiamo immaginare di raggiungere da qui a cento anni? Quali possibilità economiche avranno i nostri nipoti?”.

La risposta arriva in due tempi. Anzitutto, estrapolando l’accumulazione di capitale e i progressi tecnologici dei precedenti due secoli, nonostante “l’enorme incremento della popolazione mondiale” e “un morbo \[…\] del quale \[si\] sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica” (peraltro “uno scompenso temporaneo”), Keynes si spinge “a prevedere che di qui a cento anni il tenore di vita nei Paesi avanzati sarà fra le quattro e le otto volte superiore a quello attuale \[…\]. La conclusione è che, in assenza di conflitti drammatici, o di drammatici incrementi della popolazione, fra cento anni il problema economico sarà risolto, o almeno sarà prossimo alla soluzione”.

Sarà quindi possibile fare meglio dei “ricchi di oggi, riuscendo a stilare un programma di vita molto migliore del loro”. Anche se “ciascuno \[…\] sentirà di dover lavorare ancora un po'” – ecco la seconda previsione (o meglio “possibilità”) -, “dovremo \[…\] mettere il più possibile in comune il lavoro superstite. Turni di tre ore, o settimane di quindici, potranno procrastinare per un po’ il problema. Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare”.

Per quanto riguarda la crescita del benessere, la previsione di Keynes è stata sorprendentemente precisa, nonostante i “conflitti drammatici” e “il drammatico incremento della popolazione” che pure ci sono stati: tra il 1930 e il 2019 il Pil pro capite è aumentato di oltre cinque volte a livello mondiale, intorno a quattro nel Regno Unito. Bisogna osservare che si trattava di una previsione tutt’altro che semplice da formulare: “la grande epoca delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche” era iniziata da solo due secoli e la Grande Depressione alimentava dubbi sulle capacità dell’economia di tornare su quel sentiero di sviluppo. In effetti, sulla base della Teoria generale, vi fu chi elaborò invece la previsione di un “ristagno secolare” – una tesi, peraltro, tornata recentemente di moda. (…) Considerata come previsione (invece che come “possibilità”), quella riguardante le ore di lavoro risulta abbondantemente errata. La tendenza alla loro discesa, ben evidente prima del 1930, si è infatti bruscamente interrotta nel secondo dopoguerra. Sulle ragioni di questo “errore” sono state avanzate numerose riflessioni (…) Ma, forse più come un auspicio che come un’effettiva “profezia”, Keynes guardava poi al momento in cui l’umanità si sarebbe liberata, grazie alla scienza e alla tecnica, dalla schiavitù del lavoro e si sarebbe dovuta porre la questione di come “sfruttare la libertà dalle pressioni economiche, \[…\] come vivere in modo saggio, piacevole, e salutare”. (…)

(…) Non si può che ammirare il coraggio di Keynes nell’immaginare un futuro distante sì ma non distopico in anni così difficili quali quelli della Grande Depressione. Se fosse ancora con noi, non c’è dubbio che si interrogherebbe ancora sugli effetti delle innovazioni tecnologiche (i robot, il digitale), della demografia (l’invecchiamento della popolazione), delle disuguaglianze (non solo nei redditi). Come noi, non potrebbe non ragionare sui gravissimi rischi ambientali cui da anni sappiamo di dovere far fronte e su quelli, più recenti, che la drammatica crisi sanitaria ci spinge ad affrontare a livello globale e nel modo più coordinato possibile. Ci chiederebbe di affrontarli con determinazione e prontezza; resterebbe fiducioso nelle capacità di progresso dell’umanità. Il testo completo in allegato

Luciano Capone in “Prodi contro Prodi”, su il Foglio, prende spunto e trova ben strano che l’ex premier si scagli contro “35 anni di liberismo”, cioè contro la storia della sinistra riformista ed europeista. E’ un lungo e documentato commento, con date e citazioni, che così inizia. Strana vita, la sua. Rendersi conto sola ora di aver partecipato attivamente, nei quattro anni da presidente del consiglio intramezzati da 5 anni da presidente della commissione europea, a una stagione di sistematica distruzione dello Stato sociale. O forse no. Perché non si capisce bene se ci sia piena consapevolezza del proprio ruolo nell’ultimo quarantennio. Parliamo di Romano Prodi che, commentando il suo libro autobiografico fresco di pubblicazione dal titolo “Strana vita, la mia”, intervistato da Massimo Franco del Corriere della Sera, ha dato una risposta che sintetizza la sua visione del passato e del futuro del centro sinistra: “Nella costruzione dell’ulivo una strategia c’e stata. A quel gesto non sono stato spinto. L’ho compiuto perché volevo interpretare un’esigenza diffusa che coglie­vo nel paese. E quell’esigenza rimane, an­che se non si può declinare più come Ulivo. Il riformismo deve trovare un’identità nuo­va dopo 35 anni di un liberismo che ha deva­stato i diritti sociali”. (…) per proseguire aprire l’allegato

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