Una piazza per l’Europa

Sopravviverà la democrazia contro le diverse autocrazie e dittature che avanzano nel mondo? Democrazia intesa come prevista nella Costituzione: separazione dei poteri, diritti e doveri uguali per tutti, libertà religiosa e laicità dello Stato, libertà di stampa e di associazione, pari dignità per chi è al governo e chi si oppone? Fosche nubi si addensano sull’Europa dopo che la stessa non è stata capace di formulare una sola proposta diplomatica di compromesso per porre fine alla guerra in Ucraina e con il ritorno di Donald Trump “l’amico americano” ha voltato le spalle all’Europa, buttato all’aria valori e alleanze di decenni. Dopo lo sconcerto di quanto visto in mondo visione dell’incontro tra Trump-Vance e Zelensky, la voce di uno scrittore si è levata con una proposta per un’iniziativa di mobilitazione e di piazza. Michele Serra a sostegno della proposta ha scritto TRE ARTICOLI, qui riprodotti, che hanno suscitato molti consensi e critiche in ogni campo e schieramenti. Un’iniziativa coraggiosa alla quale diamo il nostro pieno sostegno.

Una piazza per l’Europadi Michele Serra   La Repubblica del 28-2-25

<<Il mondo sta cambiando con una velocità imprevista, la storia galoppa e non concedere requie nemmeno ai più disattenti e ai più pigri. Il disorientamento, e anche un livello non ordinario di paura, sono stati d’animo diffusi: ognuno di noi può percepirli nelle conversazioni quotidiane. Non serve un politologo o un filosofo, basta un amico al bar per sapere che si guarda al presente con sconcerto, e al futuro con apprensione. Esiste ancora il concetto politico-strategico di “Occidente” nel quale sono cresciute le ultime generazioni di- appunto- occidentali?Che fine farà l’Europa,che oggi ci appare il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro,per giunta ricolmi di bombe atomiche?

Mi è capitato di rispondere a queste domande nel modo più istintivo. Forse, anche, nel modo più “sentimentale” – ma le emozioni esistono, e a farne senza poi si vive male.

In un’Amaca di pochi giorni fa, intitolata “Dite qualcosa di europeo”, e nella mia newsletter sul Post, mi sono domandato perché non si organizza una grande manifestazione di cittadini per l’Europa, la sua unità e la sua libertà. Con zero bandiere di partito, solo bandiere europee. Qualcosa che dica, con la sintesi a volte implacabile degli slogan: “qui o si fa l’Europa o si muore”. Nella sua configurazione ideale, lo stesso giorno alla stessa ora in tutte le capitali europee. Nella sua proiezione più domestica e abbordabile, a Roma e/o Milano, sperando in un contagio continentale.

In ambedue i casi la quantità di mail e di messaggi traducibili con “io ci sto, io ci sarò, ditemi solo dove e quando” è stata semplicemente impressionante. Non mi era mai capitato niente del genere in decenni di scrittura pubblica. È come se mi fossi affacciato dalle due finestrelle di cui dispongo per vedere se giù in strada c’era qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere, e avessi trovato una piazza già piena. Non convocata, non organizzata, ma con una volontà di esserci che non è nemmeno un desiderio: è proprio una necessità. E pure essendo molto circoscritta – come è chiaro a me per primo – la mia platea mediatica, mi sono detto che forse è il caso di insistere. Di provarci. Anche perché le omissioni, in una fase così grave e convulsa della storia, sono imperdonabili.

Io non ho idea di come si organizzi una manifestazione. Non è il mio mestiere. Non ho neanche, a differenza delle Sardine, cultura e destrezza social quante ne servono per rendere veloce e pervasiva la convocazione di un evento. Non so nemmeno dirvi a che cosa serva esattamente, in questo nuovo evo, una manifestazione di persone in carne e ossa: se sia un rito arcaico e pedestre di fronte al dilagare fulminante delle adunate algoritmiche; se sia un moto generoso ma destinato poi a disperdersi nelle ovvie difficoltà politiche (unire l’Europa ma come? Ma quando? E scavalcando per primo quale dei cento ostacoli senza poi inciampare nel secondo?).

Ma penso che una manifestazione di sole bandiere europee, che abbia come unico obiettivo (non importa quanto alla portata: conta la visione, conta il valore) la libertà e l’unità dei popoli europei, avrebbe un significato profondo e rasserenante per chi la fa, e si sentirebbe meno solo e meno impotente di fronte agli eventi. E sarebbe un segnale non trascurabile, forse addirittura un segnale importante, per chi poi maneggia le agende politiche; e non potrebbe ignorare che in campo c’è anche un’identità europea “dal basso”, un progetto politico innovativo e rivoluzionario che non si rivolge al passato, ma parla del domani. Parla dei figli e dei nipoti.

Mi rivolgo dunque a chiunque abbia idea di come fare, sia l’ultimo degli elettori o il primo dei parlamentari, la più nota delle figure pubbliche o il più anonimo dei cittadini. Associazioni, sindacati, partiti, purché disposti poi a scomparire, uno per uno, nel blu monocromo della piazza europeista. Il mio sassolino nello stagno l’ho lanciato, speriamo che piovano pietre.>>

Europa, cosa difendiamo difendendoci di Michele Serra   La Repubblica 6-3-25

<<Se c’è una maniera di indebolire l’Europa è farne l’imitatrice forzuta, affannata e tardiva delle superpotenze militari formatesi nel Novecento, nel bipolarismo della Guerra fredda. Gli ottocento miliardi promessi da von der Leyen, tutti in una volta, ai Paesi membri, fanno l’effetto di una overdose di anaboliz zanti inflitti a un corpo che teme, o sa, di essere senile, e cerca di gonfiare i muscoli per nascondere la sua fiacchezza. Dando una immagine, dunque, di profonda e quasi imbarazzante insicurezza. E buttando un bel po’ di quattrini (pubblici) nel pozzo infernale del riarmo generalizzato.

Il tema della “difesa comune” e dunque di un esercito comune, che nemmeno il più distratto degli europei può ignorare senza sembrare sconnesso dalla realtà delle cose, è invece, o meriterebbe di essere, un tema del tutto nuovo, che riguarda un’Europa giovane e ancora inedita, e richiederebbe dunque uno sforzo di intelligenza, di coraggio e di fantasia, specie ora che il Grande Protettore, l’America, sta rifacendo i suoi conti politici ed economici.

Se la parola “valori” vi sembra vaga (vaga quanto: libertà, unità, democrazia, diritti), ed esposta a qualunque prepotenza e violazione se non provvede a munirsi di un guscio protettivo, va detto che nemmeno il più solido dei gusci, nemmeno la più tetra e inespugnabile delle fortezze, serve a qualcosa se è vuota dentro. Vuota di valori e dunque di senso. E il fatto che il seme dell’unità europea sia stato gettato, nel mezzo della carneficina della Seconda guerra mondiale, prima di tutto per scongiurare nuove guerre, e con la grande ambizione politica di costruire una potenza pacifica, forte e pacifica, libera e pacifica, democratica e pacifica, non è per nulla una belluria retorica. È un fatto costitutivo. Genetico.

L’Europa non era solo stata il teatro del massacro, ne era stata anche l’indiscussa responsabile. E arrivata al culmine estremo di una catena secolare di guerre nazionaliste e imperialiste, le sue avanguardie politiche e intellettuali, i suoi capi più generosi e visionari, capirono, dissero, scrissero che solamente un futuro trans-nazionale avrebbe potuto cambiare la storia, chiudendo i conti con la grettezza e l’aggressività del nazionalismo e con il puzzo di morte che ne sprigiona.

Se negli ultimi tempi si è ricominciato a discutere accanitamente di Europa, andando a frugare nei cassetti novecenteschi come studenti che hanno bisogno di ripassare, è proprio perché quel puzzo di morte ha ricominciato a spandersi. È alle nostre porte e alle nostre finestre. Oggi con la guerra d’occupazione russa in Ucraina, trent’anni fa con la sanguinosa dissoluzione nazionalista e micronazionalista della ex Jugoslavia: che sarebbe importante non dimenticare, perché già allora, di fronte prima alle indolenze, poi alle complicità dei Paesi europei, qualcuno si chiese “ma dov’è l’Europa? Esiste un’Europa? E perché non fa nulla?”. Si udì, in quei momenti terribili, la voce della Nato, che aggiunse la sua al fracasso militare. Non fu udibile la voce dell’Europa.

Trent’anni dopo è ancora come se l’Europa, come soggetto politico e come punto di riferimento etico, fosse soprattutto un vuoto da riempire, e questa percezione non è solamente delle élite. Mario Draghi, al Parlamento europeo, con il suo do something! ha espresso, con disarmante semplicità, lo stesso sentimento, con le stesse parole, delle persone semplici che in mezzo a questa tempesta pensano e dicono: fate qualcosa. L’ansia e l’incertezza, in questa fase storica, sono un sentimento popolare.

Dunque chiunque prenda la parola nel nome della difesa europea non può ignorare di che cosa si parla, quando si parla di difesa europea. C’è, come è ovvio, una questione tecnico-militare (i Paesi membri spendono già oggi, tutti assieme, duecento miliardi ogni anno, tanto quanto la Cina e parecchio più della Russia: per la serie “massimo sforzo, minimo rendimento”).

Ma l’argomento è anche fortemente valoriale. Che cosa difendiamo, difendendoci, è la domanda che conta, e la risposta è determinante. Difendiamo la pace e la tolleranza, prima di tutto, e le inseguiamo dovunque si nascondano, perché l’intera architettura europea è concepita, proprio dalle fondamenta, per questo scopo.

Difendiamo i diritti, il multilinguismo, la libertà religiosa, l’inclusione, la separazione dei poteri; e non da ultimo, e forse in questo momento per primo, difendiamo lo stato sociale, che è la sola vera difesa dei più deboli e non per caso è il bersaglio numero uno della tecno-plutocrazia salita al potere negli Stati Uniti. Ricchi che dicono ai poveri: di qui in poi, arrangiatevi.

Se l’Europa fosse anche solo la metà di tutto questo, la proposta di von der Leyen non sarebbe stata nemmeno formulata, per quanto stridente con lo statuto di fondazione e con il diffuso sentimento popolare che è di grande preoccupazione, quasi di angoscia, per la corsa mondiale al riarmo. Il fatto che sia stata formulata conferma che l’Europa, pur essendo ancora una grande speranza, un grande ideale, un grande progetto, è una costruzione politica ed etica ancora molto fragile. La percepibile carenza di altre concrete speranze suggerisce di continuare a provarci.>>

Europei in cerca d’Europa di Michele Serra – 12-3-25 La Repubblica

<<Potrebbe essere questo il titolo della manifestazione del 15 marzo a Roma. Perché più la piazza sarà piena, più farà pensare al vuoto di rappresentanza che è il motore emotivo (prima ancora che politico) dell’incontro.

Vale la pena rifarne, molto in breve, la storia. Tutto è nato in modo decisamente insolito, e quasi stravagante. Ma anche: non equivocabile. Da cittadino ho percepito, come tanti altri, il sentimento di solitudine e di spavento di molte persone, atterrite da un quadro mondiale dominato dalla forza bruta, quella che non conosce altra legge al di fuori di se stessa. Siccome il mio mestiere è scrivere, l’ho scritto, e mi sono chiesto se, stretti tra Putin e Trump, non fosse l’ora di scendere in piazza per chiedere all’Europa di esistere non solamente come entità burocratico-economica, ma anche come soggetto etico-politico, così come sta scritto nelle sue carte fondative; di accelerare il suo lungo (troppo lungo) cammino federativo e trans-nazionale; di parlare a voce alta usando il proprio linguaggio senza lasciarsi assordare dal fracasso delle armi.

Senza lasciarsi umiliare dalle minacce e dal dileggio che arrivano in stereofonia da Est e, dopo l’insediamento di Trump, anche da Ovest.

Sono arrivati moltissimi messaggi di adesione, così tanti che mi sono sentito in dovere di insistere: proviamo a farla, dunque, questa manifestazione. E ai singoli cittadini, ai quali era ed è diretto l’appello a ritrovarsi in piazza in quanto europei, o meglio aspiranti europei, si sono poi aggiunti associazioni, partiti, sindacati. E soprattutto, fin dal primo momento, i sindaci di molte città italiane, che hanno colto l’intenzione civica, prima ancora che politica, della piazza, e l’hanno fatta loro: sentirsi cittadini europei non solo come protezione e appiglio, anche come identità democratica da sventolare, da opporre al subbuglio bellico, e neo-imperiale, che minaccia di travolgerci. Venite con la bandiera europea, abbiamo chiesto. Niente simboli di partito, per cortesia. Una piazza blu a stelle gialle che domandi, e si domandi: noi siamo qui, dov’è l’Europa che vorremmo?

Dei valori europei, scritti in quel prodigioso abbozzo liberal-socialista che fu il Manifesto di Ventotene e poi sanciti, con quasi incredibile ritardo, solo sessant’anni dopo nella Carta di Nizza (carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) si conosce il nome. Pace, libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, diritti civili, democrazia – quest’ultima parola, in tempi recenti, piuttosto dismessa, parecchio dimenticata, come se fosse diventata un’abitudine scontata e non la prima ragione di orgoglio dei popoli europei e dell’Unione, in un mondo nel quale la democrazia, sarà bene ricordarcene un poco più spesso, è complessivamente in ritirata non solamente come cultura, anche come prassi politica. Perfino laddove, incredibile ma vero, la consideravamo inestirpabile. Nel paese di George Washington e di Abraham Lincoln.

Di quelle carte fondative noi possiamo dire la stessa identica cosa che spesso, da molti anni, diciamo della Costituzione italiana. Dicono cose bellissime, disegnano un tracciato virtuoso e coinvolgente, ma non siamo stati capaci di metterne in pratica i princìpi se non in minima parte. Se la bandiera europea, fin qui, ha evocato ben poche emozioni, è per questa tremenda fatica dell’Unione Europea di incarnarsi nei suoi presupposti post-bellici, che sono, nella loro sintesi più estrema, mai più guerra, mai più dittatura. Dunque pace e libertà.

Per le strette che la storia impone, sappiamo bene che è faticoso e difficile tenerle insieme, la pace e la libertà. Tanto è vero che, nella serrata discussione di questi giorni, qualcuno ha detto: prima la pace. Qualcun altro ha detto: prima la libertà. Ma “Europa” vuol dire, sia pure nell’empireo dei princìpi, che le due cose non possono che stare assieme, perché l’una senza l’altra non può esistere. Non c’è libertà sotto le bombe, e la pace, senza la libertà, è solo una truffa, come quella che Trump e Putin stanno architettando oggi sulla pelle degli ucraini, domani sulle macerie di Gaza, dopodomani chissà.

Credo che nessuna delle persone che saranno in piazza a Roma ignori l’impossibilità di tenere scissi questi due concetti; e al tempo stesso l’enorme difficoltà di farli coesistere in un progetto politico condiviso. Credo che nessuna delle persone che saranno in piazza ignori che la risposta armigera formulata da von der Leyen cozzi tristemente contro i valori fondativi dell’Unione Europea. E al tempo stesso, trascuri la necessità di una difesa comune europea che avrebbe dovuto essere pensata e messa in campo dieci (venti? trenta?) anni fa, ma è l’oggi che ci costringe a discuterne.

A chi osserva che la piazza di Roma nasce su basi troppo ingenue, perché troppo allargate, troppo plurali, e rischia di contenere persone che hanno idee molto diverse a proposito di molte e importanti questioni, faccio osservare che una piazza europea non può che essere dialettica, perfino contraddittoria, perché così è la democrazia e così è l’Europa. Quanto all’ingenuità, la rivendico. Anche etimologicamente, indica ciò che nasce da dentro, che è semplice e iniziale. Il contrario della rassegnazione e del cinismo, che sono i vizi della decrepitezza.

Lo ha detto bene Gustavo Zagrebelsky: “Ben venga una manifestazione pre-politica che, per ora, lasci in secondo piano la divisione e serva come valvola di sfogo delle nostre frustrazioni. Le frustrazioni, quando fanno massa, possono perfino trasformarsi in qualcosa di positivo, di tonico”.

Grazie a chi verrà, grazie a chi non verrà. Un poco di tolleranza reciproca farebbe parte, eccome, di una ritrovata anima europea.>>

un clic https://www.youtube.com/watch?v=MLztQTKH0Ag CARA DEMOCRAZIA

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