Sindacati troppo politicizzati

Un sindacato che propone obiettivi per l’eguaglianza e la giustizia nella società svolge un’azione politica. Essere “politicizzati” significa invece – per come pensiamo all’autonomia del sindacato – costruire collateralismi con partiti dell’opposizione o di governo, o con il governo stesso, in alternativa all’unità sindacale, all’unità d’azione. Sulla rivista Eco n.5, diretta da daTito Boeri, Roberto Mania pubblica un’analisi su “ Sindacati troppo politicizzati” che auspichiamo sia letta da molti sindacalisti di vertice e di base, per suscitare un dibattito che indichi prospettive alternative.

Cgil, Cisl e Uil sono figlie delle ideologie novecentesche, di culture poitiche che stentano a essere protagoniste nel XXI secolo, perchè quel mondo non esiste più, è profondamento cambiato. Ma il declino della rappresentatività sindacale nasce anche dalla iper politicizzazione, non solo dalla epocale trasformazione del lavoro. Cambia pelle il sindacato italiano. Mentre le categorie utilizzano una insperata autonomia per agire unitariamente e ottenere risultati, seppure con fote connotazione corporativa, le tre storiche confederazioni fanno politica in senso stretto, attraverso referendum abrogativi e proposte di legge, con scarse prospettive per risultati significativi. .Le tre storiche confederazioni sindacali ora fanno politica in senso stretto, all’interno dell’arena della politica, con gli strumenti della politica. Siamo dentro un campo non in­compatibile con l’azione sindacale, ma certa­mente estraneo allo specifico agire sindacale. L’idea del sindacato-partito ha esaurito da tempo, con il tramonto della concertazione, la sua forza propulsiva

Se i sindacati sono troppo politicizzati – di Roberto Mania Eco Agosto 2024

Ci sono almeno tre sindacati in Italia, che con­vivono sempre più a fatica e tra varie contrad­dizioni. E non stiamo parlando soltanto della classica tripartizione confederale. Cgil, Cisl e Uil sono figlie delle ideologie nove­centesche, di culture politiche che stentano a essere protagoniste nel XXI secolo perché, banalmente, quel mondo non esiste più. Il la­voro salariato, per la cui tutela sono nati i sin­dacati, si è trasformato in tanti lavori; la stessa cultura del lavoro è sottoposta ad aggiorna­menti continui sotto i colpi di una pervasiva rivoluzione tecnologica; il capitale è stato ca­pace di assumere fisionomie del tutto inaspet­tate e spesso assai poco trasparenti. Le “gran­di dimissioni” sono di questo secolo, non del Novecento. Così come l’intelligenza artificiale. I tre grandi sindacati non sono rimasti uguali a sé stessi, sono in movimento, forse un po’ len­to. È questo processo che bisogna cominciare a osservare per provare a capire quale possa essere il nuovo approdo del movimento sinda­cale italiano.

Un sindacato, tre funzioni

Tre sindacati, dunque. Uno politico (le confe­derazioni), troppo politico. Uno negoziatore (le categorie), che fa i contratti non solo per la redistribuzione della ricchezza prodotta ai diversi livelli, gli accordi per le riorganizzazioni delle imprese, le intese per l’allargamento del cosiddetto welfare aziendale: fa, insomma, il suo mestiere in senso stretto. E uno – i patro­nati e i Caaf, ma anche gli enti bilaterali – che offre i servizi di assistenza fiscale o sociale, di integrazione previdenziale o sanitaria, o, an­cora, di formazione, nei quali dai lavoratori al plurale si passa alla tutela del singolo. Non è una questione meramente lessicale, ma un cambio di prospettiva. Perché si tratta di attivi­tà di servizio e non di rappresentanza, in con­correnza con altri soggetti di derivazione delle associazioni dei datori di lavoro, della finanza (banche, assicurazioni) o del mondo delle professioni. Il nuovo, ma non nuovissimo, pro­selitismo si fa pure per questa via.

D’altra parte, proprio in queste attività pa­ra-pubbliche (in Italia una quota dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti va a finanziare i patronati) risiede il successo o almeno la tenuta del ruolo istituzionale (e rappresentativo) dei sindacati nordeuropei, svedesi in testa. In silenzio, il sindacalismo italiano si muove esattamente nella stessa direzione perché i servizi, spinti dall’invec­chiamento progressivo della popolazione, di­ventano sempre più centrali per l’equilibrio dei bilanci confederali e per la nuova sindacalizzazione.

Come spiegano bene Paolo Agnolin, Massimo Anelli, Italo Colantone e Pietro Stanig sul primo numero di Eco, (vedi allegato)gli iscritti ai sinda­cati si sono significativamente contratti negli ultimi vent’anni e, utilizzando una metodolo­gia diversa da quella tradizionale ma probabil­mente più adeguata a misurare correttamente il fenomeno, si scopre così che in Italia il tasso di sindacalizzazione viaggia ampiamente sot­to il 20%, contro un tasso superiore al 30% stimato dall’Ocse.

L’azione tutta politica delle confederazioni.

La divisione tra le confederazioni c’è da tem­po. Ma è in questa stagione di profonde e ra­dicali divaricazioni tra Cgil, Cisl e Uil rispetto al rapporto con il governo di destra guidato da Giorgia Meloni che le contraddizioni sono più evidenti e rendono meno lineari i profili identitari dei tre sindacati, incidendo sulla stessa rispettiva forza rappresentativa.

Gli scioperi generali proclamati dalla Cgil e dalla Uil, talvol­ta ancor prima dell’approvazione dei provvedi­menti contestati (è il caso dell’ultima legge di bilancio) e senza ottenere alcunché anche in termini di partecipazione, sono anch’essi sin­tomi di un sindacalismo proiettato verso nuovi modelli.

I nostri principali sindacati sono sempre stati soggetti politici, lo erano – pur mantenendo una altalenante autonomia – durante la pri­ma repubblica; lo sono stati nella cosiddetta seconda repubblica, spesso assumendo un ruolo di supplenza della politica.

Siamo anco­ra dentro la seconda repubblica, ma il modo di “far politica” di Cgil, Cisl e Uil è decisamente cambiato. La premessa è che la stessa confederalità è “politica”, nell’idea sottostante di solidarietà orizzontale tra categorie diverse di lavoratori. La novità è che le tre storiche confe­derazioni sindacali ora fanno politica in senso stretto, all’interno dell’arena della politica, con gli strumenti della politica.

La Cgil di Maurizio Landini ha promosso la  “via maestra”, una variante della “coalizione sociale” lanciata ormai una decina di anni fa dall’allora leader della Fiom. Ora è la Cgil, non la categoria dei metalmeccanici, a promuove­re un’alleanza tra soggetti sociali e culturali a difesa della Carta costituzionale minacciata dai progetti del premierato e dell’autonomia differenziata.

Sempre la Cgil di Landini ha deciso di racco­gliere le firme per quattro referendum abroga­tivi su alcune norme del Jobs Act del governo Renzi del 2015 relative all’assenza del reinte­gro nei posto di lavoro in caso di licenziamen­to illegittimo, ai licenziamenti nelle piccole imprese, alla liberalizzazione dei contratti a termine, a particolari regole degli appalti.Lo aveva già fatto nel 2017 con tre quesiti, uno (sulla disciplina dei licenziamenti individuali) non ammesso dalla Corte costituzionale, e al­tri due (su voucher e appalti) superati per via legislativa.

È dal 1997 che, salvo una eccezio­ne, non si raggiunge più il quorum necessario per la validità di un referendum. La Cgil lo sa bene, come sa che il crescente astensioni­smo assume connotati patologici e non quelli fisiologici di una democrazia matura. Eppure, ha scelto la via dei referendum. Perché? Per una sfida all’interno della sinistra italiana nella quale sono riemerse le divisioni tra i cosiddet­ti riformisti e i radicali di sinistra. La segretaria del Pd, Elly Schlein, ha firmato per i referen­dum promossi dalla Cgil, marcando anche in questo caso la differenza con la via blairiana di Matteo Renzi, perché il referendum simbolo è quello che riguarda (quasi dieci anni dopo) l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti.

Quella dei licenziamenti non è più questione centrale (nemmeno in termini ideologici) in questa fase di ripresa del tasso di occupazione con il record storico di circa 24 milioni di oc­cupati, al di là dell’influenza non irrilevante che hanno sul dato i mutamenti demografici.

D’altra parte, non c’è stata alcuna impenna­ta dei licenziamenti dopo l’approvazione del Jobs Act. Lo dicono i numeri. Nel 2023 – ha ricordato Bruno Anastasia su lavoce.info – i licenziamenti da rapporti di lavoro a tempo in­determinato sono diminuiti del 40% (350 mila contro 600 mila) rispetto ai livelli del 2014, cioè prima dell’approvazione della riforma del lavo­ro del governo Renzi. Secondo i dati dell’inps nel 2019 (periodo pre-Covid) i licenziamenti di natura economica erano stati 352.701 contro i 271.262 del 2022, quelli di natura disciplinare 59.144 contro 88.288 (si veda la tabella).

Complessivamente (considerando tutte le altre motivazioni) le cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono state 1.260.496 nel 2019 e 1.378.584 nel 2022 con un incremento di poco più di 118 mila unità, mentre nello stesso periodo sono cresciute di oltre 200 mila unità le dimissioni. Un conte­sto significativamente diverso da dieci anni fa, con il ciclo economico in ripresa e suoi effetti positivi sul mercato del lavoro. La Cgil ha però occupato il campo, costringendo i vertici del Pd e del M5s a definirsi anche in rapporto alle scelte del sindacato.

Ma c’è di più. La Cgil ha già elaborato una cor­posa proposta di legge di iniziativa popolare di ben 87 articoli su “Disposizioni per un lavoro stabile, sicuro e dignitoso”. La confederazio­ne deve ancora decidere come e quando av­viare la raccolta delle firme necessarie per la presentazione in Parlamento, ma la strategia referendum abrogativi-legge di iniziativa po­polare è sufficientemente chiara: agire come soggetto politico/partitico. Affiancata nelle ini­ziative più di politica sindacale (scioperi e ma­nifestazioni) dalla Uil, in una sorta di neo-pan- sindacalismo.

La Cgil, insieme alla Uil, ha poi scelto di par­tecipare con quasi tutti i partiti dell’opposizio­ne alla raccolta delle firme per la richiesta del referendum contro l’autonomia differenziata. Dentro la politica, dunque, e con la politica. Con l’opportunità, in quest’ultimo caso, che la possibile contemporaneità dei referendum possa aiutare il raggiungimento del quorum su tutti i quesiti.

D’altra parte, anche la Cisl di Luigi Sbarra ha imboccato la strada dell’iniziativa legislativa popolare, quasi contravvenendo a uno dei suoi valori politico-culturali, quello dell’auto­nomia della contrattazione rispetto alla legge. Nel nuovo quadro, la Cisl ha raccolto le firme per una proposta di legge sulla partecipazione dei lavoratori in azienda, in applicazione all’ar­ticolo 46 della Costituzione, ha presentato il testo in Parlamento, ha ottenuto l’appoggio dell’attuale maggioranza di centro-destra e, ora, quella proposta ha tutte le caratteristiche per diventare legge prima della fine dell’anno. Un obiettivo che può spiegare la disponibilità della confederazione cattolica a dividersi net­tamente da Cgil e Uil nei giudizi sull’operato del governo Meloni. Il quale, fuori da ogni logi­ca di concertazione sociale, ha deciso di sfida­re direttamente i sindacati nella rappresentan­za dei lavoratori: valgono per tutti i due decreti legge varati simbolicamente il primo maggio dell’anno scorso e di quest’anno in materia di lavoro.

Ma le incursioni nel campo sindacale non avvengono solo da destra. I partiti dell’oppo­sizione si sono schierati per il salario minimo legale, rompendo il tabù dell’inviolabilità delle materie di stretta competenza sindacale.

Lo slancio a una rinnovata autonomia delle categorie arriva pure dall’espansione degli enti bilaterali cogestiti pariteticamente da sindaca­ti e imprese, fuori da una logica conflittuale, su materie quali la formazione, gli ammortizzatori sociali, la sicurezza, la salute. La stessa fram­mentazione e instabilità dei rapporti di lavoro favorisce (si pensi al caso storico delle casse nel settore dell’edilizia) l’intervento degli orga­nismi sociali lì dove l’apparato pubblico fa più fatica ad arrivare. Ci sono spazi enormi per la nuova contrattazione. Guardiamo alla previ­denza complementare: solo il 36,9% dei la­voratori (ultimo rapporto Covip) è iscritto a un fondo integrativo, di questi circa il 40% è iscrit­to a un fondo negoziale contro quasi l’88% in Olanda, o il 70 per cento in Germania (dati Ocse). A conferma dell’eccezione italiana, sono i fondi aperti e i Pip (piani pensionistici individuali) a trainare le adesioni alla previden­za integrativa. Colmare queste distanze può essere una sfida per il sindacato.

Si rinnovano i contratti e si erogano servizi che garantiscono ai sindacati stessi entrate annue superiori al mezzo miliardo di euro, secondo le stime di qualche anno fa del politologo Pao­lo Feltrin; si gestiscono parti del welfare com­plementare di origine negoziale (nazionale o aziendale) anche con una funzione di difesa del reddito reale dei lavoratori. È un sindacato che sta cambiando pelle, difficile non vederlo. Messe così le cose, dunque, è lecito doman­darsi se servano ancora confederazioni sin­dacali iperpoliticizzate. Perché il declino della rappresentatività sindacale sta anche qui, non solo nella trasformazione epocale del lavoro. L’idea del sindacato-partito ha esaurito da tempo, con il tramonto della concertazione, la sua forza propulsiva e ia rincorsa verso la po­litica rischia solo di trasformarsi in un ostacolo allo stesso agire sindacale.

Più autonomia alle categorie

In questo contesto di rapporti definiti esclusi­vamente all’interno di dinamiche politiche tra governo e confederazioni sindacali, si muo­vono con notevole autonomia strategica le categorie, senza più una evidente regia cen­trale, ma soprattutto in maniera sorprenden­temente unitaria. Così i bancari hanno potuto strappare, grazie ai profitti realizzati dagli isti­tuti di credito, un incremento contrattuale di oltre 400 euro mensili, contro una media per le altre categorie che si aggira intorno ai 200 euro. Segnali di una nuova possibile giungla retributiva, ma anche di spinte corporative che possono arrivare dalle categorie avvantaggia­te dalla fase congiunturale.