Pierre Carniti ricordando l’autunno 1980 a Mirafiori afferma che c’è similitudine con la situazione attuale della Fiat che come allora si trova di fronte un eccesso di capacità produttiva non utilizzata a causa della caduta della domanda e nel contempo ad un sottodimensionamento della Fiat in rapporto alla concorrenza internazionale. Nell’intervista rilasciata a Loris Campetti parla del 1980 e di Romiti, di Pomigliano e di Marchionne. Pubblichiamo il testo completo dell’intervista dove si ritrovano molte riflessioni critiche alla strategia della Cisl ( deroghe al contratto nazionale) e sulla detassazione degli straordinari afferma “…è una misura demenziale in fase recessiva”.
Trent’anni e 35 giorni
INTERVISTA a Pierre Carniti | di Loris Campetti Il Manifesto 15 settembre 2010
L’ex segretario Cisl Pierre Carniti ricorda l’autunno dell’80 a Mirafiori. Ma oggi la Fiat di Marchionne assomiglia a quella di Romiti. Trent’anni fa le decine di porte d’accesso allo stabilimento di Mirafiori – il gigante dell’auto in cui lavoravano 50 mila persone – erano presidiati giorno e notte dagli operai che avevano scelto il blocco della produzione a oltranza. 35 giorni sarebbe durata quella lotta, figlia della disperazione di chi sente di essere a una svolta generale, percepisce di giocare «l’ultima partita» di un torneo iniziato nel biennio ’68-’69 in un clima e con rapporti di forza rovesciati. Quella battaglia fu persa dai lavoratori che avevano speso tutte le loro energie ai cancelli. Dalla firma di un accordo scritto direttamente dall’«uomo nero» della Fiat, Cesare Romiti, su mandato del segretario della Cgil Luciano Lama – accordo che Pierre Carniti, allora segretario della Cisl, chiede di scrivere tra virgolette – prese il via la controrivoluzione padronale: redistribuzione al contrario della ricchezza, dai poveri verso i ricchi, concentrazione di tutto il potere nelle mani dell’impresa. La marcia dei cosiddetti 40 mila capi (Luigi Arisio, arruolato da Carlo Callieri, ammise in seguito che non erano più di 20 mila. Comunque troppi, una marea) fece dire ai gruppi dirigenti sindacali che la partita era chiusa e bisognava bere fino in fondo l’amaro calice. Ma la sconfitta non venne mai chiamata per nome, e questo moltiplicò la frustrazione dei militanti dei 35 giorni, il popolo dei cancelli. Trent’anni dopo si può fare qualche valutazione, e la tentiamo con chi firmò quell’«accordo» contestato in assemblee tumultuose a Mirafiori, tra fischi, strattoni e ombrellate. Si aprì la strada a 24 mila espulsioni dalle fabbriche.
Carniti, c’è qualche similitudine tra la situazione dell’autunno ’80 e quella attuale, che vede l’ultimo assalto ai residui diritti sindacali, un’altra volta da parte della Fiat?
Certamente sì. I problemi strutturali dell’azienda torinese erano analoghi a quelli di oggi: un eccesso di capacità produttiva non utilizzata rispetto a una caduta della domanda e, al tempo stesso, un sottodimensionamento della Fiat in rapporto alla concorrenza internazionale. Oggi come allora l’azionista privato, la famiglia Agnelli, aveva deciso di non mettere un soldo nell’auto e i ricavi degli anni precedenti li aveva dirottati sulla speculazione finanziaria. Anche allora c’era una scarsità di nuovi modelli. L’altra similitudine è che, così come ieri Romiti se la prendeva con gli operai e il conflitto sindacale, oggi Marchionne se la prende con la Fiom. Le cause dello stato precomatoso dell’azienda andavano e vanno ricercate altrove.
Torniamo all’80, e alla sconfitta ai cancelli. Vuoi tentare un bilancio di quell’esperienza?
In gioco c’erano le cose che dici tu, la percezione di un attacco inedito al potere in fabbrica. E in Italia, si sa, la Fiat fa sempre scuola. Dunque, c’era la crisi della quantità e della qualità della produzione, i piazzali erano pieni di macchine invendute e le modalità con cui l’azienda decise di affrontare la situazione determinò una reazione uguale e contraria. Fu scelto il blocco a oltranza della produzione, una forma di lotta che non avrebbe aiutato un risultato positivo: gli scioperi a oltranza, salvo casi eccezionali, portano alla sconfitta. L’unico risultato che ragionevolmente avremmo potuto ottenere era la cassa integrazione a rotazione per evitare quelle liste di proscrizione che poi arrivarono. È più facile da dire che da fare, me ne rendo conto, con un’azienda portata al disastro dalla proprietà e dai dirigenti e un’esasperazione comprensibile dei lavoratori. Ma quella forma di lotta, alla lunga portò divisioni tra operai e impiegati e tra gli stessi operai. Chi partecipò alla marcia dei 40 mila pagò successivamente quella scelta antioperaia e gli impiegati fecero la stessa fine degli operai. Fuori dalla fabbrica.
Una volta dicesti al «manifesto» che tu non avresti voluto firmare un testo d’accordo, scritto da Romiti, lo stesso giorno della marcia.
Con grande difficoltà, alla fine lo firmai per solidarietà con Lama. Eravamo all’hotel Bristol, il povero segretario della Cgil era tempestato di telefonate dal gruppo dirigente del Pci che era andato in confusione e temeva effetti negativi sul terreno elettorale. Sicuramente Chiaromonte, poi Berlinguer e credo anche Fassino misero Lama alle corde. Che mi disse: «Non ho alcun margine di manovra». Io ripetevo che avremmo dovuto aspettare 3-4 giorni, facendo passare l’impatto simbolico della marcia dei capi e discutendo e trattando il testo. Alla fine accettai, perché quando si perde si perde insieme.
Insieme a Lama e Benvenuto; e insieme agli operai? Le assemblee furono contestate dai lavoratori e voi tre vi beccaste qualcosa di più dei fischi.
Io ero all’assemblea delle meccaniche, il casino scoppiò alla fine quando i militanti che avevano sostenuto la lotta ed erano sotto il palco chiesero che quelli in fondo, impiegati e capi, non avessero diritto al voto perché non avevano partecipato alla protesta. Non era una posizione plausibile. Poi ci fu un voto nettamente maggioritario a favore del sedicente accordo, ma anche questo dato fu contestato. Io uscii tra le urla e qualche strattone e fuori dai cancelli, sulle rotaie del tram c’erano gruppi esterni di contestatori, c’erano pezzi di porfido… Fui salvato da due uomini robusti, il dirigente del Pci Giuliano Ferrara e un capo operaio di Mirafiori, Sabbatini.+
Ricordo quella giornata terribile. Io ero all’assemblea di un altro settore dove le contestazioni toccarono a Giorgio Benvenuto. Furono due giornalisti a metterlo in salvo, chi scrive e Salvatore Tropea di Repubblica. Non ricordo però parole di fuoco, né che chiamasti squadristi i contestatori.
Certo che no, quegli operai erano esasperati, altro che squadristi. Operai che vedevano la fine al termine della cassa a zero ore. Non condividere certe forme di lotta non può far venir meno la solidarietà con la tua gente che le ha condotte. Ero ragazzino quando, nel pieno di una divisione nel movimento bracciantile, assistetti a un comizio di Di Vittorio in Puglia. Salì sul palco e iniziò così: «Compagni abbiamo sbagliato».
Ti piacerebbe sentire i segretari dei sindacati firmatari del sedicente accordo di Pomigliano dire «Compagni abbiamo sbagliato»?
(Carniti si fa una grassa risata, ndr). A Pomigliano, l’ho già detto sul manifesto, sotto tiro è il contratto nazionale di lavoro e la Fiat fa da apripista per tutte le aziende che, una dopo l’altra, cominceranno a piangere miseria: la concorrenza internazionale, il costo del lavoro… e chiederanno deroghe e riduzione dei diritti. Quello di Pomigliano, però, non è che l’atto conclusivo del processo di smantellamento del contratto nazionale messo in atto da questo governo, senza adeguate reazioni da parte dei sindacati e della politica. Hanno detassato gli aumenti aziendali per determinare anche tra i lavoratori una spinta a incentivare il contratto aziendale, trascurando il sistema di solidarietà garantito dal contratto nazionale; hanno detassato gli straordinari, misura demenziale in una fase recessiva; idem con le turnazioni particolari e il lavoro domenicale. Marchionne ha solo formalizzato la fine del contratto nazionale. Mi dicano i sindacati: cosa c’è dopo il contratto nazionale? Me lo spieghino, io non vedo nulla, nessun disegno strategico plausibile.
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