Senza salario non si riparte
Giovanni Graziani, in sette cartelle qui allegate, recensisce il libro “La questione sociale” di Andrea Garnero e Roberto Mania, iniziando con due domande. Qual è il rapporto di reciproca dipendenza che lega il salario alle altre variabili (produttività, profitti, inflazione, occupazione, eccetera) su cui valutare l’efficienza di un sistema produttivo, la razionalità della distribuzione della ricchezza, l’efficacia delle regole di un sistema collettivo di determinazione delle retribuzioni? E, per dire la stessa cosa in termini politici, la moderazione salariale di questi ultimi decenni va ora messa da parte nell’interesse non solo del lavoro ma di tutto il paese?
Queste domande – scrive Graziani – sono stimolate dalla lettura di questo libro di 120 pagine; questioni per dare risposta alle quali è necessaria una breve ricostruzione degli antecedenti che rimetta in discussione alcuni degli assunti consolidati, fino a sclerotizzarsi, nel confronto politico e sindacale. (…) . La recensione è articolata in cinque punti che così iniziano:
<< 1. Già nel 2018 l’Ocse (ricorda Garnero, pp. 10-11) aveva indicato rilevato la debole dinamica delle retribuzioni su scala internazionale, indicandone tre ragioni: una che riguarda le aziende, cioè il rallentamento della produttività (peraltro con forti differenze da una singola realtà all’altra); una nell’ambito del mercato del lavoro, con il calo della domanda di competenze intermedie, una domanda senza risposta sufficiente di quelle più alte, una conseguente polarizzazione fra livelli alti e bassi; e una relativa ai sistemi di relazioni industriali, dove cambiano a favore delle imprese i rapporti di forza, tanto che torna a parlarsi di situazioni di monopsonio (p. 14; ma si può esprimere il concetto raccontandolo dal lato dei sindacati, di cui si è indebolita la forza rappresentativa, cioè il correlativo monopolio dell’offerta capace di riequilibrare i rapporti di forza). (…)

2. Ma la moderazione salariale non diventa a sua volta, cristallizzandosi in una sorta di dogma o di tabù, un elemento permanente che si rivela incompatibile con le esigenze di sviluppo del sistema non meno della spinta salarialista? Non è diventata, a sua volta, una “variabile indipendente” di cui doversi liberare in base alla ragionevole considerazione che tutte le variabili in economia sono legate da rapporti di reciproca dipendenza? E, nello specifico, l’aumento dei salari e l’espansione della produttività possono essere disaccoppiati in modo permanente (come di fatto accade negli ultimi trent’anni, durante i quali si cerca la crescita passando dalla moderazione salariale come scorciatoia per la competitività), senza ridurre di conseguenza la spinta al miglioramento della seconda e a cascata quella dei primi? Qui Garnero ha il coraggio (p. 45) di usare la parola “autocritica” riferita al “discorso dominante fra gli economisti” e di dire che il salario, in effetti, è stato considerato una “variabile indipendente” nel senso opposto a quello dell’autunno caldo, qualcosa da poter comprimere senza effetti collaterali negativi sul sistema. Ed il risultato è stato che i bassi salari sono stati causa (e successivamente effetto, in circolo vizioso) della bassa crescita. Accompagnandosi questo al fenomeno (ricordato da Mania, p. 47) di un “travaso (…) di ricchezza dal lavoro al profitto”. (…)
3. Una volta delineati i contorni del problema, si può concentrare l’attenzione sulle possibili risposte; cominciando a capire in cosa si è sbagliato finora, e in particolare a quali leggende si è creduto come se fossero dati incontrovertibili. Il primo errore (da riconoscere almeno con il senno del poi), affonda le radici negli anni Ottanta (ma forse già nei Settanta, la stagione della prima “emergenza” e dei “sacrifici” di Lama o della, un po’ diversa, “austerità” di Berlinguer) quando la disoccupazione cresce in maniera costante e si crede che una parte della soluzione possa essere quella del “lavoretto” sia come alternativa preferibile alla disoccupazione sia come porta d’accesso ad un’occupazione destinata poi a stabilizzarsi. Comincia allora la politica di flessibilizzazione del mercato del lavoro e la connessa moltiplicazione delle forme contrattuali alternative all’assunzione a tempo pieno e indeterminato che durerà nei decenni successivi. “L’idea – spiega Garnero, p. 54 – era che un lavoretto, anche se a tempo parziale, di breve durate e magari non pagato granché fosse comunque meglio di niente”. Un’idea, si può aggiungere, che si radica e diventa autoevidente, fino a produrre ancora nel XXI secolo l’autorevole quanto sbagliato invito ai giovani a non essere troppo choosy, ad accettare l’ingresso al lavoro in forme non stabili e/o con basse retribuzioni. (…)
4. È solo alla fine che i due autori trattano il tema più politico, quello del salario minimo per legge (pp. 93 ss.). Un tema sul quale le interessanti recensioni del libro pubblicate da quotidiani come il domenicale del Sole-24 Ore (Alberto Orioli, 30 marzo 2025) o il supplemento Economia del Corriere della Sera (Enrico Marro, 28 aprile 2025) nascondono un po’ il pensiero espresso in queste pagine, riprendendone le indicazioni di cautela e omettendo quelle relative alla necessità4. Perché è ben vero che Garnero sostiene un approccio pragmatico, e sconsiglia di partire da interventi legislativi generali; ma questo dopo aver chiarito che il salario minimo è una necessità (“un minimo salariale, che sia nei contratti o per legge, serve”, p. 95) e che la via esclusivamente contrattuale in questo momento in Italia non è sufficiente. E dopo aver confutato la banalità per cui il problema riguarderebbe solo i settori “non coperti” dalla contrattazione collettiva (sarebbe cioè residuale e quindi, con passaggio logicamente fallace, non bisognoso di correzione; come dire che una medicina non serve a chi è malato perché c’è una maggioranza di sani). Ma parlare di settori non coperti “non vuol dire niente” (p. 98), perché sulla carta tutti i settori e tutti i lavoratori in Italia hanno un qualche contratto collettivo che li copre (o, per essere esatti, che li “deve” coprire, confondendo astrazione giuridica e realtà sociale). Eppure (i dati citati sono dell’Inps e risalgono al 2021) il 18,4% non arriva alla soglia indicata dalle principali proposte di legge (9 all’ora; e il 9,6% non arriva ad 8; un calcolo in cui è compresa la tredicesima; p. 96) (…)
5. Giovanni Graziani così conclude la sua recensione << Una volta chiuso il libretto resta qualcosa nella mente che va al di là della saggezza delle analisi e dei consigli. La parabola dalla spinta salarialista degli 1969-1975 alla sua dispersione e al consolidamento di un paradigma opposto (che a partire dalla fin troppo celebrata svolta dell’Eur nel 1978 ha dato priorità all’occupazione, cioè alla politica, rispetto al salario, cioè alla contrattazione e all’azione strettamente sindacale, preparando lo squilibrio del sistema tarato sul galleggiamento invece che sulla produttività) racconta di una storia i cui protagonisti interpretano un copione che da alcuni decenni è rimasto lo stesso mentre gli attori invecchiano e non sono più plausibili nella parte recitata in commedia. La responsabilità sociale e il farsi partecipi della funzione di governo come ruolo affidato alle confederazioni sindacali e interpretato con una certa drammaticità in anni difficili, rischia ora di scivolare nel grottesco per la distonia fra il copione da interpretare e l’esperienza del pubblico cui si rivolge (che ne conosce per esperienza gli esiti negativi in termini di potere d’acquisto e di mancata crescita dell’economia) e per la mancanza di energia cui si assiste in scena. Una debolezza che appare il rovesciamento della forza, pur se male indirizzata in qualche momento, che la rappresentanza sindacale aveva saputo esprimere in passato.
Non è più la forza organizzativa e conflittuale, come ai tempi della variabile indipendente, l’immagine associata ai sindacati; e la loro debolezza si riflette in quei fenomeni di sfarinamento del sistema contrattuale collettivo e di flessibilizzazione spinta che rende il salario (e il reddito) dipendente da variabili che lo penalizzano. A spese del lavoro che in Italia, e solo in Italia rispetto ai paesi europei paragonabili, è impoverito in tutte le sue espressioni, in basso e in alto, coperte dalla contrattazione collettiva. Ed a spese di tutti noi, che viviamo questa depressione salariale, sociale e anche un po’ L democratica (perché anche questa è una variabile connessa alle altre, pur se su un piano che eccede quello economico). >>.
In allegato:
1 – il testo completo di Giovanni Graziani postato anche su https://www.prendereparola.it/2025/06/14/senza-salario-non-si-riparte/
2 – la prefazione del libro “La questione salaruiale di Andrea Garnero e Roberto Mania
3 – sala bassi in Italia, ultima nell’Ocse di Rosaria Amato

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