Oltre il confine

Cos’è la solidarietà? Cosa sono le emozioni? Cos’é l’empatia? Nel capitolo “Oltre il confine- Lefe Support”, Marianna Aprile racconta la sua esperienza di volontaria sulla nave Lef Support, per il soccorso agli immigranti in mare: la sua narrazione da risposte ai tre interrogativi. Il libro “Materiali resistenti” di Marianna Aprile e Luca Telese fa riflettere sul diverso significato delle parole “resilienti” e “resistenti”, è stato presentato recentemente a Torino, per iniziativa di “La miniera culturale in periferia” promossa da Franco Aloia (vedi immagine). Un incontro ben riuscito e partecipato. Un libro che ben serve per operare e dare senso concreto alla solidarietà. un libro utilissimo per il sindacato.

Stralci del capitolo  OLTRE IL CONFINE – Life support che trovate completo in alleagato  

(…) Ed è proprio a terra che voglio tornare. Perché a terra se un Salvini qualsiasi incontrasse Jonathan Nani La Terra pen­serebbe di aver davanti la conferma dei propri cliché sugli attivisti da «centro sociale galleggiante»: lunghi capelli rasta biondi, tatuaggi, orecchini. Invece è un velista e un im­prenditore del turismo che ha sempre vissuto sul mare (è di Marina di Ragusa), ha una laurea in antropologia ed è spe­cializzato in migrazioni transnazionali. Tra gli studi cui si è dedicato, anche uno che smonta un altro pezzetto di pro­paganda: «Mi sono applicato a dimostrare che italiani e mi­granti non competono negli stessi settori, nella ricerca del lavoro, e che quindi lo spauracchio dei poveracci che arri­vano da noi per rubarcelo non ha basi reali» racconta. Jo­nathan aveva una vita bellissima (parole sue): lavorava due o tre mesi l’anno, nel turismo, il resto del tempo lo passava in moto o in barca in giro per il mondo. «Poi ho deciso di provare a sposare le mie due passioni, il mare e la voglia di fare qualcosa per contribuire a rendere più giusto il modo in cui si tratta chi migra. E così, quando è partito il progetto di Emergency per Life Support ho dato una svolta alla mia vita e mi ci sono imbarcato.» Non è più sceso. «E oggi sono felice.» Anche queste, parole sue.  Pag 127

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Un’iniziativa ben riuscita e partecipata: quando la solidarietà suscita emozioni e empatia

(…) Ad accomunare chi è a bordo è anche una certa idea di lavoro: «Non riuscirei mai a lavorare solo per arrivare a fine mese: voglio sentirmi pulito quando vado a letto e sapere che al risveglio farò qualcosa di utile». La sua storia dimo­stra che Luca Radaelli dice il vero. Nel 2008 aveva trent’anni e un contratto a tempo indeterminato da infermiere di riani­mazione in un ospedale milanese. Si occupava di malati terminali: anche allora quindi, in qualche modo, operava su un confine difficile da attraversare. «Rientrato a Milano dopo un’esperienza di sei mesi in Afghanistan da volontario con Emergency, non riuscivo più a trovare con me stesso scuse per restare indifferente, per considerarla una parentesi e ri­prendere con la mia vita, dopo tutto quello che avevo visto. Mi sono licenziato e sono tornato lì; ci sono rimasto fino al 2017, diventando responsabile di tutto il progetto Afghani­stan.» Ora è nelle risorse umane della Ong di Gino Strada e quando può sale su Life Supporfr. «Siamo qui anche perché non si spenga l’attenzione su un mare che è cimitero delle vittime civili dei cambiamenti climatici e delle guerre del mondo. Se si spegne l’attenzione su questo, resta solo l’altra parte del racconto, quella che punta a far credere ai pove­racci italiani che il loro problema sono i poveracci stranieri e che quindi la soluzione a tutto sia fare la guerra a loro».  Pag 128-129

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(…) Ci pen­serò spesso, poco dopo esser scesa dalla nave, quando il mio amico Giuseppe Carotenuto, che fa il fotografo e che con me era stato in Tunisia e a Lampedusa, mi scriverà dalla Geo Barents di Medici senza frontiere: dopo aver effettuato due salvataggi e salvato centosessantacinque persone, l’equipag­gio aveva iniziato a veder affiorare dal mare dei corpi. Alla fine, ne recupereranno undici, tra cui quelli di alcuni bambini. «Maria’, ci credi? E cambiato l’odore del mare. Sono sul ponte in alto, neanche sottovento rispetto all’area in cui stanno “pescando”. Eppure, tutto intorno qui si sente solo odore di cadavere. Perché è proprio l’acqua ad averlo. Ma quanti devono essere i corpi là sotto per essere riusciti a cam­biare l’odore del mare? Sono nato e cresciuto sul mare, lo sai, ma da oggi non potrò mai più guardarlo con gli stessi occhi e sentirne l’odore senza ricordare quello che ha in questo mo­mento, qui.» Conosco Giuseppe da tanti anni, quella voce lì non gliel’avevo mai sentita. Così come non mi ero mai sentita tanto meschina come quando, mentre mi parlava, mi sono scoperta a pensare: meno male che è capitato a te e non a me.  Pag 130

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(…) Quello a cui ho partecipato è stato il 3 maggio del 2024, il giorno in cui ho compiuto quarantotto anni. E in cui ottantasette persone sono nate di nuovo.

«Secondo me Gino ci guarda ed è felice.» Lo dice Chessa mentre siamo sul ponte. E sorride. A bordo, Strada non è solo sul fianco sinistro di Life Support, ma anche nella pic­cola biblioteca di bordo, nei principi sottesi a ogni azione che si compie e soprattutto nei racconti di tutti quelli che lo hanno incrociato o ne hanno subito il carisma al punto da voler cambiare le proprie vite e metterle (anche) al servizio degli altri con Emergency.

Quella frase su Gino, Sara la dice il giorno dopo il salva­taggio, mentre siamo sulla rotta verso nord che ci porterà a Napoli, porto assegnato dal Viminale per lo sbarco   pag 131

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(…) Lezione numero tre: inutile provare a prepararsi a gestire emotivamente qualcosa che non può che coglierti imprepa­rata; la sola cosa di senso è prepararsi a saperla fare. Quando ripartiamo verso Life Support abbiamo a bordo trentuno persone che, mentre ci allontaniamo, non smettono di guardare quel gommone, che ormai è quasi affondato, ma è alle spalle. Lo facciamo anche noi. Non so quali pensieri abbiano attraversato gli altri membri dello staff, so che tutti a un certo punto abbiamo iniziato a scherzare e fare battute. Forse per esorcizzare tutto quello che di brutto avrebbe potuto essere e non era stato, o forse perché la risata è la forma più immediata di condivisione, il modo più efficace di con­fermarsi a vicenda un’appartenenza, se non a un modo, a un comune sentire. Per questo sono abbastanza convinta che i resilienti ridano meno dei resistenti, e i cattivisti molto meno dei buonisti (qualunque cosa siano i buonisti). E solo uno dei pensieri che riesco a isolare da quella specie di tempesta che sento in testa mentre Jonathan dà gas per uscire il prima possibile dalle acque libiche. Una volta sulla nave, i naufraghi vengono visitati, ricevono tuta, coperte, spazzolino, acqua, cena. Pag 134-135

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Lezione numero quattro: mai pretendere di conoscere le paure degli altri; piuttosto fattele raccontare.

Ammetto che non è facile descrivere cosa si prova nel mo­mento in cui le autorità salgono a bordo e dopo ore di con­trolli (e un dispiegamento di forze degno di una retata anti­mafia) portano via quelle ottantasette persone. E il momento in cui il mondo come potrebbe essere si incontra, anzi si scon­tra, col mondo com’è. In cui lo spazio dell’accoglienza deve aprirsi ai metodi della restrizione. Nel corso delle molte ore necessarie per lo sbarco, ci sono stati addii profondissimi tra persone che si sono incrociate per pochissimo, ma in un modo e con una intensità che ha cambiato la vita a tutti e a molti l’ha salvata  (…)

Nel corso di quelle esercitazioni, giocavamo una volta il ruolo dei soccorritori, la volta dopo quella dei naufraghi, vivi e morti; altra bella lezione: provare sempre a vestire i panni degli altri. Ma fa­cevamo anche i conti con l’eventualità di doverli lasciare al mare, quei corpi, qualora le condizioni non avessero consen­tito di recuperarli. Chi salva gente in mare deve saper pren­dere, e rapidamente, decisioni difficili, assumersi rischi e re­sponsabilità che le istituzioni italiane ed europee rifuggono per miopia e calcolo politico. Devono fare benissimo una cosa assurda, come dice Micol; fare quasi dei miracoli, ma quasi non è abbastanza, come dice Tareq.

E assurdo, insufficiente e non è neanche giusto. Perché nel frattempo a terra c’è chi inventa circolari e decreti per rendere più costoso e difficile tutto questo e condannare le navi umanitarie a ricominciare sempre da capo.

Scriveva l’amato Albert Camus nel suo II mito di Sisifo (1942) che, nonostante la sua condanna eterna a spingere il noto masso per vederlo poi rotolare giù fino al punto di par­tenza, avremmo dovuto e potuto «immaginare Sisifo felice», partendo dall’assunto che abbracciare la propria condizione esistenziale sia fonte imprevedibile di una certa forma di feli­cità. Lessi II mito di Sisifo da adolescente e lì per lì mi aveva persino convinto (cosa fa l’amore, specie da adolescenti). Passata l’infatuazione, però, mi sono resa conto che quell’i­dea di felicità un po’ mi irritava, mi dava l’idea di conten­tino, aveva il sapore di quelle forme di maquillage esisten­ziale di cui abbiamo bisogno per accettare ciò che sarebbe altrimenti insostenibile. Quella felicità ricordava più la resi­lienza che la resistenza.

Anche fosse vera, la felicità di Sisifo sarebbe tuttalpiù un traguardo individuale. E invece perché una felicità sia dav­vero tale c’è bisogno degli altri, serve che, come la paura, sia condivisa, che i suoi effetti siano di tutti. La felicità vera o è collettiva o non è. C’è bisogno che quel masso sul monte ci resti, o che almeno non rotoli tutte le volte fino ai suoi piedi. O che anche rotolando ai suoi piedi provochi delle reazioni. Le Ong che operano nel Mediterraneo centrale in Italia stanno messe peggio di Sisifo, perché il loro masso ogni volta cade un po’ più in basso rispetto ai piedi del monte e del mondo. Perché mentre Emergency, Sea Watch, Sos Médi- terranée, Mediterranea Saving Humans, Medici senza fron­tiere, Open Arms e tutti gli altri Sisifo dei nostri mari fanno una fatica degna della mitologia per far avanzare il masso di tutti sul pendio del monte della giustizia, qualcun altro si premura di scavare ai piedi di quella già impervia e acci­dentata altura per rendere tutto più complicato, inaccessi­bile, quindi ingiusto. Fortuna che, quando il masso spinto dalle navi umanita­rie rotola fin giù, si sposta anche un po’ più in là, proprio perché la fatica che si fa a bordo non è individuale ma col­lettiva, sostenuta da una comunità magari esigua ma sicura­mente fedele, motivata e combattiva. Quando il masso della missione 19 di Life Support è rotolato giù, io per esempio non ero più nello stesso punto in cui ero quando mi sono imbar­cata. Quando il masso della missione 19 di Life Support ro­tola giù, cioè quando si torna a terra, le lavagnette nella living room e in plancia di comando che tengono il conto delle vite salvate vengono aggiornate: da 1.544 a 1.631 persone. Nella living room a farlo è Maria Rametto, e dovreste vedere l’e­spressione che ha nel video che ho girato mentre lo faceva.

Tornata a terra, quella missione l’ho tatuata sulla pelle, cioè sul primo dei confini che ci sono tra noi e gli altri. Per ricordare a me stessa la lezione numero cinque: i confini si possono ignorare, ridefinire, ripensare e addirittura modifi­care, se la posta in gioco è la difesa di un principio che re­sta giusto anche mentre tutti intorno urlano che è sbagliato. P. 138-140

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